Due film dei primi Anni Zero prefiguravano già la nostra condizione attuale: A.I. – Artificial Intelligence (Steven Spielberg, 2001) ed Eternal Sunshine of the Spotless Mind (Michel Gondry, 2004) sono il cinema di una batteria che si sta scaricando – la mente, i ricordi, le scelte, ciò che ci definisce e che ci qualifica come umani.
Gli sforzi che il robottino David compie nel film – che Spielberg realizza nel 2001 sulla base di un progetto di Stanley Kubrick, ispirato al racconto Supertoys Las All Summer Long di Brian Aldiss – sono destinati alla frustrazione perenne. A differenza del suo modello dichiarato Pinocchio, infatti, David non riesce e non riuscirà a risultare “umano” non perché sia cattivo o disobbediente, ma perché tutto in lui – azioni, comportamenti, pensieri, emozioni – è rigidamente determinato dal programma che lo guida. Così, persino il suo amore totalizzante e ossessivo per la “mamma” si sgancia e devia costantemente dall’umanità proprio perché David non sta facendo altro, lungo tutto il suo itinerario, che girare a vuoto. Persino il suo compagno di avventura, Gigolò Joe, riesce a conquistare maggiore autonomia, o quantomeno consapevolezza della propria condizione di “mecha”: “Ci odiano. Gli umani. […] Ci hanno fatti troppo intelligenti, troppo veloci, troppo numerosi. Stiamo soffrendo per i loro errori, perché quando arriverà la fine, tutto ciò che rimarrà saremo noi”.
Infatti, subito dopo il tentato suicidio – parentesi di libero arbitrio per il piccolo androide –, l’atto che identifica completamente David, una volta sommerso sott’acqua e intrappolato nell’anfibicottero insieme all’orsacchiotto Teddy, è la sua autistica implorazione alla Fata Turchina, riproduzione in gesso nel luna park di Coney Island: “Fammi diventare un bambino vero”. Il veicolo e il robot si scaricano, e trascorrono duemila anni, con glaciazione ed estinzione del genere umano. Una volta riattivato, David diviene l’unico anello di connessione con l’idea di umanità.
MEMORIA E IDENTITÀ
Similmente, Eternal Sunshine è la lotta di un cervello con se stesso per conservare e alimentare la propria memoria – vale a dire la propria identità. Joel e Clementine sono come due vecchi amici, teneri nella loro ingenuità e immersi in un contesto dall’estetica indie, che ritroviamo oggi mentre tutto l’ecosistema fisico e digitale in cui noi viviamo immersi lavora a favore dell’oblio. Allora, seguire le loro peripezie nel 2018 diventa ancora più struggente e straziante che nel 2004, dal momento che costantemente, quotidianamente facciamo esperienza di come i nostri ricordi vengano strappati al nostro cervello, non per sottrazione ma per sovraccarico, per alluvione e per accumulazione. Sepolti sotto strati e strati di contenuti, jpeg, smistamenti e intersezioni, vengono smantellati e riposizionati ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Facciamo esperienza dell’esistenza in uno scenario molto simile alla libreria i cui volumi si sbiancano progressivamente: collaboriamo attivamente alla cancellazione di noi stessi, e mentre veniamo cancellati ci scattiamo un bel selfie che ci ricordi di quel momento inesistente, perduto per sempre. Ci siamo trasferiti in un’immensa, sterminata clinica Lacuna Inc., e ne siamo ben contenti.
DIFENDERE L’EMPATIA
Non ci resta che scavare e trovare la nostra Montauk, proteggerla e difenderla a oltranza, sostenerla come una pianta e ritornarci di tanto in tanto: “Come la maggior parte delle persone, Rick si era spesso chiesto quale fosse il vero motivo per cui un androide girava a vuoto senza speranza quando veniva sottoposto a un test per la misurazione dell’empatia. L’empatia, evidentemente, esisteva solo nel contesto della comunità umana, mentre qualche grado di intelligenza si poteva trovare in qualsiasi specie e ordine animale, arachnida compresi. La facoltà empatica, tanto per cominciare, richiedeva probabilmente un istinto di gruppo integro; un organismo solitario, per esempio un ragno, non saprebbe cosa farsene; anzi, l’empatia tenderebbe ad atrofizzare la capacità di sopravvivenza del ragno. Lo renderebbe conscio del desiderio di vivere insito nella preda. Di conseguenza tutti i predatori, compresi i mammiferi altamente evoluti, come i felini, morirebbero di fame. L’empatia, aveva concluso una volta, deve limitarsi agli erbivori o comunque agli onnivori, che possono astenersi da una dieta a base di carne. Perché, in fondo, il dono dell’empatia rendeva indistinti i confini tra vittima e carnefice, tra chi ha successo e chi è sconfitto” (Philip K. Dick, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, 1968).
‒ Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #44
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