Political Animals

Donna con gli attributi, ex first-lady di presidente donnaiolo, corre alle primarie democratiche; perde contro rappresentante di una minoranza radicatissima nel tessuto sociale americano e si ricicla come Segretario di Stato. Vi ricorda qualcosa?

I tempi non sono ancora maturi per un biopic che racconti le gesta di Hillary Clinton: trattasi dunque delle ben poco fantasiose premesse di Political Animals, miniserie da sei puntate con cui Usa Network ha provato, tra luglio e agosto, ad attizzare un pubblico ormai calato nella campagna elettorale. Tentativo fallito: esordio con poco più di 2 milioni e mezzo di spettatori, ascolti in crescita ma sempre sotto i 3 milioni; commenti della stampa d’oltreoceano che vanno dal caustico all’offensivo; un mezzo flop, insomma, che in Italia potremmo anche non vedere mai in chiaro e che è quasi certo non avrà seconde opportunità nemmeno in patria.
Se i presupposti erano debolucci, le trovate per smarcare il plot dalla vita vera di casa Clinton risultano un po’ troppo facili: sostituire l’insipiente Chelsea con un figlio gay e l’ingombrante figura di Obama con un mammalucco italo-americano finisce per peggiorare una situazione già in chiaro odore di macchietta. E dire che la protagonista è Sigourney Weaver, con quel piglio severo che fa tanto Studio Ovale: evidentemente stritolato dalle spire soaporifere di Greg Berlanti, già autore di saghe come Dirty Sexy Money e Brothers & Sisters. Come a dire: uno che ci sguazza a infilare politica e finanza nel filone inesauribile del familiar-patetico. In questo caso, forse, davvero poco familiare e troppo patetico: che gli americani tendano al clownesco è dato di fatto, ma un candidato alla Casa Bianca che ancheggia durante una convention ballicchiando funky ancora non si è visto; e per quanto – da Kennedy a Clinton – la predisposizione alla scappatella sia un must, almeno i presidenti in questione non rimorchiavano alla tavola calda.

Political Animals

Political Animals

Cosa c’è di buono, allora, in Political Animals? Proprio l’accoglienza tiepida, che restituisce un pubblico – chissà quanto serenamente – maturo; impassibile nei confronti del ferale tentativo di marciare su una campagna elettorale strana, priva dell’acredine e dell’afflato del recente passato; orfana di personaggi naïf (ricordate Sarah Palin?) e nemmeno troppo convinta, forse, da un Obama che non sa uscire dai panni del pifferaio magico. Se gli schiaffi aiutano a crescere, chissà che quelli della crisi non abbiano contribuito a svezzare la giovane America, eterna adolescente.

Francesco Sala

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #10

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Francesco Sala

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