Fase Due (III). Il problema del disprezzo

“Un sistema – anche artistico e culturale ‒ che usa regolarmente il sopruso, la prevaricazione, il classismo, lo sfruttamento (tutte varianti del disprezzo) non può essere vivo e significativo, perché rifiuta la disposizione al cambiamento, vale a dire la disponibilità a lasciarsi trasformare. Invadere”. Nuovo capitolo della rubrica di Christian Caliandro ispirata alla Fase Due.

Fase Due: i bar e i ristoranti sono pieni, la gente affolla le strade e tutto sembra tornato esattamente come prima. Qualche mascherina qui e lì (magari appoggiata sotto il mento o attaccata a un orecchio), ma tutto sommato gli “assembramenti” sono ovunque.
Intanto, nel mondo dell’arte, Art Basel annuncia l’annullamento dell’edizione 2020, dopo il rinvio da giugno a settembre; è il preannuncio forse di altri rinvii, di altre cancellazioni e disdette? Sta di fatto che la strategia maggioritaria intravista finora nel sistema dell’arte contemporanea sembra essere piuttosto “attendista”. Si rimanda, si temporeggia, nella convinzione o nella speranza che ‒ prima o poi ‒ tutto torni nei ranghi.
Il problema è che, al di là dei desideri e delle convinzioni dei singoli, l’amplificatore che è il virus, che è l’“emergenza”, agisce anche sulle opere e sul modo di farle vedere (le mostre, le fiere ecc.). Voglio dire che, nonostante tutti gli sforzi, non sembra possibile tornare al “come prima”, a fare le cose dell’arte come prima. Per un semplice motivo: tutto è invecchiato alla velocità della luce. Quasi istantaneamente.
Per quanto ci proviamo, per quanto ci illudiamo, non possiamo scacciare questa sensazione di obsolescenza. Rimettere il genio nella lampada non è pensabile, non è praticabile. Il che non vuol dire, ovviamente, che oggi o nel prossimo futuro non ci saranno tentativi anche piuttosto efficaci e ben congegnati di ignorare del tutto questa nuova situazione, di fare come se nulla fosse accaduto. Di pretendere, cioè, che l’opera – e il suo autore, l’artista – si comportino esattamente come qualche mese fa, come qualche anno fa. Ma ciò che scorre sotterraneamente è qualcosa che ha a che fare con la percezione: cambia lo sguardo, il punto di vista. L’attenzione.
Si può continuare, certo, a “fare finta” – ma esiste uno scarto, uno slittamento. Che è più difficile aggirare o scavalcare.
Come spesso si è detto, anche prima – nel famoso prima – il modo in cui la maggior parte delle opere era concepito, realizzato, fruito era abbastanza obsoleto. Sganciato rispetto al tempo che stiamo vivendo. Solo che adesso questo processo, proprio come gli altri, tende a emergere in maniera più evidente.

Serena Fineschi, Viva questo mondo di merda, 2012 18. Collezione privata. Installation view at M12 Gallery, Bruxelles. Photo credit Geert De Taeye

Serena Fineschi, Viva questo mondo di merda, 2012 18. Collezione privata. Installation view at M12 Gallery, Bruxelles. Photo credit Geert De Taeye

DA GEORGE FLOYD A JEAN GENET

È un po’ come per le proteste contro il razzismo che stanno infiammando e scuotendo, in questi giorni, molte città americane: il razzismo negli Stati Uniti (e nel mondo) non viene certo scoperto con l’omicidio di George Floyd da parte di un poliziotto di Minneapolis; ma dopo questo evento, e le sue dirette conseguenze, diviene molto più difficile ignorarlo, fare finta di niente. Qualcosa è accaduto – e a partire da questo un intero equilibrio, una “situazione” diventa inaccettabile e viene messa in discussione. Il che, di nuovo, non vuol dire affatto che la stragrande maggioranza delle persone e delle istituzioni non faccia di tutto per rimuovere cause, effetti, connessioni, significati; ma qualcosa è cambiato, un cambiamento di qualche tipo ha avuto inizio.
Il 1° maggio 1970, davanti a una folla di studenti statunitensi, Jean Genet pronunciò queste parole: “Ciò che chiamiamo civiltà americana scomparirà. È già morta, perché si basa sul disprezzo. Per esempio, disprezzo del ricco verso il povero, del bianco verso il nero, ecc. Tutte le civiltà basate sul disprezzo devono necessariamente scomparire. E non sto parlando di disprezzo in termini di morale, ma in termini di funzione: ciò che voglio dire è che il disprezzo come istituzione contiene la propria dissoluzione, e la dissoluzione di ciò che esso genera” (via Gianluigi Ricuperati).
Qualunque sistema che si fonda sull’esclusione, sulla paura dell’altro, del contatto con l’altro – del “contagio” – è destinato a morire, dunque. È già morto nei fatti. Perché è immobile, sclerotico, poggiato sulla continua riaffermazione e reiterazione dei medesimi codici. Un sistema – anche artistico e culturale ‒ che usa regolarmente il sopruso, la prevaricazione, il classismo, lo sfruttamento (tutte varianti del disprezzo) non può essere vivo e significativo, perché rifiuta la disposizione al cambiamento, vale a dire la disponibilità a lasciarsi trasformare. Invadere.
E così, un’opera che non sia autenticamente democratica, intelligentemente popolare, e che non preveda di costruire una relazione attiva con il proprio contesto di riferimento – un’opera che in fondo disprezza il suo interlocutore – appare oggi molto più vecchia e superata rispetto a qualche mese fa.
Improvvisamente, non è un’opera contemporanea.

Christian Caliandro

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Fase Due (I). Niente è come prima
Fase Due (II). Il peso della insostenibilità

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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