“L’arte ti salva”. Intervista all’artista Jacopo Benassi per la sua mostra a Genova

Dopo la sua residenza a Palazzo Ducale, Jacopo Benassi presenta la sua mostra: ben 110 opere prodotte negli ultimi cinque anni di lavoro, attraversando la pittura, la fotografia, il suono, la performance. Lo abbiamo intervistato

Il suo sogno è “fare una mostra di cornici”. Incontro Jacopo Benassi (La Spezia, 1970) per la prima volta il 5 giugno, all’apertura del suo atelier-residenza. La sua frase programmatica riempie già lo spazio che si affaccia sul Cortile Maggiore di Palazzo Ducale. Lì ha attrezzato un vero e proprio laboratorio, con tavoli di legno, ferraglie, barattoli di vernice, strumenti musicali, maschere di personaggi famosi, tanti tipi di cavi per connessioni audio e video arrotolati e appesi alle pareti.
L’artista ligure, baffi e barba grigi, occhiali appoggiati sulla testa, indossa una maglietta nera con la scritta “Crass”, un collettivo inglese e gruppo anarcho punk degli Anni Settanta. Capto di lui, da subito, un’immagine sonora. Benassi incontra il pubblico e chiacchiera in maniera spontanea, restituendo un’idea di produzione in progress. L’associazione Blu – Breeding and Learning Unit di Genova, “con un nome finto serio”, come dichiara Francesco Cavalli con un pizzico di ironia, vuole “essere ponte con il resto del mondo”, occupandosi di cultura. Lui è uno dei fondatori dell’organizzazione no profit e supporter di questo progetto artistico, sostenuto da Strategia Fotografia 2024, bando emesso dal Ministero della Cultura.

Jacopo Benassi Libero! Palazzo Ducale, Genova, 2025. Photo Linda Kaiser
Jacopo Benassi Libero! Palazzo Ducale, Genova, 2025. Photo Linda Kaiser

Incontri e performance di Jacopo Benassi

Il 26 giugno torno a trovare Jacopo, che dialoga apertamente su fotografia – dalla quale tutto ebbe inizio –, performance e installazione. Il suo Public Program, nel frattempo, si è articolato attraverso incontri, condivisioni, scambi, conversazioni e anche sinergie con l’Electropak Festival, in corso di svolgimento a Genova. La maglietta che indossa è sempre nera, la scritta ricorda i Circle Jerks, una band punk rock californiana di fine Anni Settanta. In ciabatte, l’artista scherza con un naso finto, racconta che “è solo scoppiata una bomboletta” di vernice, come ha scritto sulla parete, e anticipa quello che confluirà nella mostra che aprirà nella Loggia degli Abati il 12 luglio.

La mostra di Jacopo Benassi a Genova

A Palazzo Ducale, Jacopo espone 110 opere realizzate negli ultimi cinque anni, ricreando il suo grande studio e appoggiando i suoi lavori al muro. Nell’ultima parte della mostra, racconta, ha fatto costruire un tunnel di 2 x 1 m: “un percorso ironico, che conduce direttamente nei gabinetti”, dove inserisce le sue ultime opere. Qui la scritta finale richiama Villa Croce, il museo genovese d’arte contemporanea attualmente chiuso per lavori di adeguamento. Jacopo ha fotografato le palme del parco intorno all’edificio e l’ha dipinte qui; ci sono anche alberi che simbolicamente bruciano. Ha inserito nelle stesse opere dei gambi di rosa con le spine. A documentare il suo lavoro non un catalogo, ma un libro d’arte, forma coerente con un personaggio fuori dagli schemi. Adesso nel suo atelier-residenza ci sono opere di cui si vede soltanto il retro – la parte sconosciuta dell’arte –, ma dalle pareti anch’esse ci parlano. Sono eloquenti pure i teli neri che coprono il suo grande tavolo di lavoro incorniciato e altre immagini. Una sbirciatina ce la lascia dare, ed è come se presentasse degli amici ad altri amici, li condividesse in una grande opera collettiva.

Intervista a Jacopo Benassi

E finalmente, in un altro pomeriggio di calura estiva, incontro Jacopo da solo per un’intervista. È un po’ come se gli avessi dato la caccia per giorni, lo avessi osservato a lungo, familiarizzando sempre di più con il suo fare artistico.
 
Il titolo del tuo progetto e della tua mostra è Jacopo Benassi libero!, con il punto esclamativo finale.
Sì, devo ammettere che mi sento liberato dallo schema della fotografia. Voglio alludere alla libertà creata da me dentro al limite della cornice, del vetro, dell’immagine stessa. Adesso sento che posso persino non far vedere le immagini. Anche il retro della foto è un’immagine, anche il titolo che è riportato dietro. Mi sento sempre più concettuale, quando capisco che la libertà più grande è quella di non far vedere l’immagine. Non è una libertà che tutti devono per forza seguire. Io rispetto la fotografia, ma personalmente me ne sono liberato. Amo di più fotografare i miei dipinti. La pittura sta diventando per me sempre più importante. Dipingo e poi fotografo i dipinti e, quindi, presento le foto dei dipinti: si crea così una sorta di ciclo continuo.
 
È dunque un cortocircuito che spiega quel punto esclamativo?
Il punto esclamativo del titolo è una dichiarazione urlata, appartenente alla lotta, ma anche ironica. Lavorare 8 ore è dura – l’ho fatto, nel passato –, ma oggi mi ritengo un privilegiato. Ci ho messo tanti anni a diventare autonomo con il mio lavoro vero, questo che è serissimo – ben inteso, non come quello di un chirurgo che salva le vite o come quello del medico che mi ha operato alle anche e grazie al quale cammino. L’arte, per il 99% del “popolo”, non serve a nulla, anche se è importantissima, e per me lo è proprio se riesce a creare un dialogo con chi la guarda. L’arte ti salva, perché ci si salva insieme in un mondo di merda, l’arte è – o dovrebbe essere – una specie di abbraccio, uno stendere la mano agli altri. Io sto cercando di creare questo coinvolgimento, di costruire connessioni, le premesse per trovarci insieme, anche fisicamente.
 
Fotografia “e” oppure “è” immagine? Come è stata la tua evoluzione?
All’inizio, facevo immagini per accompagnare un testo, nelle riviste. Questo significa produrre un’immagine per documentare un momento (ad es. un giocatore di calcio). Oggi utilizzo la fotografia come immagine per andare oltre. Pesco dal mio archivio, che è importante. Ben inteso, scatto ancora fotografie, specialmente nelle performance, quando sono davanti e dietro l’obiettivo allo stesso tempo, sempre libero. Adesso scatto meno foto, non provo più il senso della conquista, del ‘prendere’ immagini senza un’idea precisa. Mi sono liberato anche di questo. Ho ripreso i gambi delle rose nel più grande giardino di Taiwan, ma avrei potuto essere anche a Genova. Non amo molto vedere le immagini-cartolina, quando sotto casa, per esempio ad Aulla, posso scattare foto ancora più interessanti.
 
Come e perché hai iniziato (tardi) a entrare nel mondo dell’arte?
Ho iniziato nel 2019 con il critico d’arte e curatore Antonio Grulli a entrare in una galleria, quella delle sorelle Francesca e Alessandra Minini. Con quest’ultima condivido grandi cantate di karaoke.
In pochi anni, ogni giorno, ho seguito un’evoluzione naturale: una maturazione c’è ed è il cercare di essere me stesso. Ho trovato la sincerità e ho capito chi sono. Adesso posso andarmene anche in Borgogna con il mio compagno restauratore, e certamente non perché sono diventato ricco. Dal gennaio 2025 lavoro anche con la Mai 36 Galerie di Zurigo, che segue e propone artisti come Thomas Ruff, Luigi Ghirri, Robert Mapplethorpe. È stato per me un onore fare una mostra con il gruppo canadese General Idea di AA Bronson. Di recente, ho preso una ragazza, Franca, che mi aiuta nella produzione di mostre e filtra, seguendolo, il mio lavoro.

Ti definiresti fotografo, artista, performer o che altro?
Mi definisco un artista contemporaneo. Gli artisti contemporanei oggi fanno tutto. Quello che è certo è che non mi sento un attore.

Qual è il ruolo del suono e della musica che tanto ti appassionano?
Prima di tutto, devo dire che non so suonare. Ho rinunciato a imparare la musica, che è sempre stato il mio sogno. A La Spezia ho avuto un locale per cinque anni, dal 2010 al 2015: si chiamava Btomic (e non Atomic, perché esisteva già a Milano), dove presentavo musica alternativa, sperimentale. Era un Circolo Arci e si trovava in piazza Brin. Poi ho iniziato a fare performance con il suono del microfono, quindi utilizzavo le chitarre in maniera analfabeta. Dopo aver sentito un’intervista alla ballerina americana Trisha Brown, in cui diceva che “anche cadere è danzare”, mi si è aperto un mondo. Ora non cerco di imparare più nulla, ma di essere spontaneo, di essere me stesso, anche in maniera molto goffa. Collaboro pure con musicisti veri, come Luciano Chessa, Lady Maru e Michele Lombardelli, dove si innescano insieme suono e non suono.
 
Cos’è il territorio per te e com’è il tuo rapporto con esso?
Il mio territorio è lo studio e lo studio può essere ovunque. A La Spezia il territorio si trova tra lo studio e il bar, dove incontro gli amici. E per me gli amici sono molto importanti.
 
E il rapporto con l’istituzione museo?
Lo vedo come un momento di crescita del mio lavoro ed è augurabile per tutti gli artisti.
 
Quella che stai finendo di preparare è una mostra-atelier, un work in progress. È la prima volta per te?
Avevo già fatto un’esperienza del genere nel 2023, in Normandia, a un festival di fotografia. È come spostare un territorio. Trovo facilità nel lavoro, perché nella mia vita ho tante amicizie, tanti rapporti, come qui quelli con Blu, che supportano il mio lavoro. Lavorare sul posto è bello.
 
Com’è il tuo rapporto con il pubblico? Lo ritieni un co-protagonista?
Il pubblico è la mia performance, è lo spettacolo. Io fotografo le reazioni delle persone e sono loro che esprimono cosa sta succedendo. Forse il futuro del mio lavoro è proprio questo: lo sguardo attento di chi guarda mentre tu gli stai catturando l’anima.

Linda Kaiser

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Linda Kaiser

Linda Kaiser

Linda Kaiser (Genova, 1963) è laureata in Storia della critica d’arte all’Università di Genova, dottore di ricerca in Storia e critica dei beni artistici e ambientali all’Università di Milano, specializzata in Storia dell’arte contemporanea alla Scuola di Specializzazione in storia…

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