Tutto il peso del cielo: in una chiesa di Narni una mostra tra infanzia e memoria
Pochi ingredienti per raccontare una fanciullezza tormentata. Cinque fotografie d’archivio stampate su tessuti formato-bandiera, ritraggono famiglie anonime, con i volti di anonimi infanti. Avviene in una piccola chiesa a Narni

Allestita all’interno di una piccola chiesa dentro un Palazzo cinquecentesco a Narni, è la mostra Tutto il peso del cielo di Alex Urso (Civitanova Marche, 1987).
L’artista – già avvezzo a costruire delicati diorami con voliere ed altri oggetti evocativi – “ne rende qui uno su scala monumentale”, commenta il curatore Lorenzo Rubini. “Quando mi confronto con un luogo lo faccio sempre con grande discrezione, mai con la volontà di impormi, ma in punta di piedi” racconta Urso.
La mostra di Alex Urso a Narni
Una discrezione che era necessaria per uno spazio come l’Ex Istituto Beata Lucia, abitato da storie imbrigliate tra sofferenza e liberazione. Prima di essere centro di passaggio e di accoglienza, l’intero complesso era, infatti, fino agli Anni ’80 del Novecento, un vero e proprio orfanotrofio, come l’incisione su pietra in uno degli ingressi, ricorda. Sebbene alla memoria dello stabile non manchino allacci storico-artistici: vi pernottarono diversi grandturisti d’Ottocento. Corot vi giunse per dipingere le verdissime lande d’intorno e così anche Turner: “quasi nessuno lo sa, ma il suo diario alla National Gallery è esposto aperto proprio alla pagina che mostra un suo bozzetto di paesaggio umbro” rivela Rubini.
L’infanzia nell’opera di Alex Urso a Narni
L’artista sceglie pochi ingredienti per raccontare una fanciullezza tormentata. Cinque fotografie tratte dagli archivi del complesso e stampate su tessuti formato-bandiera, ritraggono famiglie anonime, con i volti di anonimi infanti. Bandiere disposte a terra, un poco gualcite, in segno di resa, sulle quali gravano cinque massi, raccolti presso le rive del vicino fiume Nera.
Intanto tre uccellini impagliati, non più vivi, ma pur sempre vividi, si distinguono nell’ambiente consacrato. Due passerotti e un latteo canarino, ai quali è accostato del nutrimento in forma di semini. Nutrimento offerto e negato dal loro stato di eterna quiescenza. Uno si adagia su una colonna, l’altro su un altare, il terzo su un’acquasantiera. Le triadiche presenze, leggiadre e struggenti, in bilico tra la rigidezza della morte e la vocazione del volo, rimandano alla serie scultorea Songs of the Canaries (2024) di Jan Fabre, conservandone la medesima funzione angelica. Ma se Fabre si mostrava intento a misurare la vastità dei cieli, Urso ha già trovato la sua risposta: qui il cielo è pesante, denso di un passato poco lieto.
L’allestimento della mostra
Motore dell’iter visuale è una poesia composta dall’artista che descrive, in pochi versi, il gesto di un bambino che uccide con la fionda un canarino. A rimembrare l’infanzia come stagione dell’essere nella quale il lutto è ancora solo un gioco. La violenza resta latente, come può accadere in un sogno attutito. E tuttavia di questa vicenda onirica, resta testimonianza: nel confessionale, al riparo dal vociare, emblema di un rimprovero taciuto o di un colpevole tabù, Urso pone una fionda d’epoca.
La mostra è concreta e metaforica insieme, nel suo svolgersi con uno sguardo contemporaneo, ma retroflesso. Urso appare guidato dalla santità di Lucia, patrona dello spazio, a restituire alla vista ciò che si cela e che risuona ancora nell’aria in forma di ricordo.
Un enorme diorama oppure, ed è forse ancor più calzante per via delle ombre che l’artista non rifugge né tace, un’ipertrofica shadow box alla Cornell. Con la risemantizzazione di oggetti comuni a ricreare una narrazione franta e compunta.
Francesca de Paolis
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