L’arte in piazza: vizi privati e pubbliche virtù dell’arte pubblica

Dall’Antica Roma ai nostri giorni, le piazze vengono usate per veicolare messaggi educativi e politici, anche attraverso l’arte. Spesso, però, gli interessi privati oscurano quelli pubblici, e persino l’attenzione alla qualità della proposta espositiva

Per quale motivo i musei di tutto il mondo sono “protetti” da una direzione scientifica, un consiglio di amministrazione ed un management a cui si chiede di essere sempre più responsabili e politicamente corretti, mentre le piazze cittadine gestite direttamente dagli assessori alla cultura, più espressione della politica che della cultura, sono sempre più spesso affidate ai “primi venuti” che, come novelli conquistadores, tendono a proiettare i propri legittimi interessi, non esclusivamente culturali, su una scala più ampia, innescando così un conflitto d’interesse che dovrebbe essere riconosciuto e tematizzato per essere risolto, visto anche il trend in ascesa dell’arte pubblica

Piazze e arte pubblica: le criticità

Rispetto ai musei, le piazze delle città italiane spesso non hanno una programmazione espositiva di pari importanza e di adeguato controllo qualità. Eppure, proprio perché crocevia della vita cittadina e luogo pubblico per eccellenza, almeno da quando i greci hanno inventato l’agorà, la piazza meriterebbe una programmazione espositiva addirittura più attenta e selezionata di quella dei musei. Considerando il numero di visitatori di un’opera in piazza si capisce quanto questo luogo sia potenzialmente un naturale centro di “educazione” alla visione, a valori estetici e morali. Le piazze raggiungono una audience superiore e senza intermediazione, lasciando a ciascuno di noi l’onore e l’onere di esperire ed interpretare quella che oggi frettolosamente, e un poco paradossalmente, viene chiamata arte pubblica. Ma è davvero pubblica? E cosa significa? Se di pubblico c’è soltanto l’accesso libero e gratuito, un po’ come accade per i social network (che in realtà sono aziende privatissime), allora manca una componente fondamentale: l’interesse pubblico. L’arte non è davvero pubblica se è soltanto arte in piazza scaraventata nella sfera dell’urbe, dentro la coscienza cittadina a partire da motivazioni e per scopi che di pubblico interesse hanno poco. Scarseggiando le risorse, poiché scarseggia una cultura del valore dell’interesse pubblico, le amministrazioni sembrano accogliere le richieste di occupazione del suolo pubblico da parte di artisti sponsorizzati da attori economici del mondo dell’arte, e finisce lì. La discussione intorno al merito, come ad esempio l’interesse dell’opera per la vita cittadina, il suo valore estetico, il suo significato storico, politico ed etico, se ci sarà, avverrà su giornali e social media una volta che la piazza sarà occupata dalle opere. Non prima.

L’arte pubblica nel Rinascimento fiorentino

Ma la piazza, nella storia dell’Occidente, rappresenta il primo museo possibile, il luogo dove si raccolgono e tramandano i valori condivisi da una civiltà attraverso la loro rappresentazione estetizzante, in quelle statue di marmo e di bronzo fatte per durare e per avere la massima visibilità, accessibilità e condivisione. La Loggia dei Lanzi, in Piazza della Signoria a Firenze, è un esempio perfetto. La sua edificazione risale agli anni d’incubazione del Rinascimento per dare un riparo alle assemblee pubbliche e alle cerimonie ufficiali della Repubblica fiorentina. Con la creazione del Granducato di Toscana, nel 1512 lo spazio diviene consapevolmente “espositivo”, andando a ospitare alcuni capolavori scultorei di epoca romana, copie greche e quel Perseo con la testa di Medusa che il granduca Cosimo I commissiona a Benvenuto Cellini immedesimandosi nell’eroe che decapita la Gorgone: allegoria della repubblica cittadina e delle sue tentacolari discordie. La Loggia, giunta intatta fino a noi, precede di secoli la Galleria degli Uffizi, edificata già nel 1580 ma come edificio delle magistrature e poi sede della wunderkammer semi-pubblica di Francesco I; servirà attendere il 1769 quando, in pieno Illuminismo, Pietro Leopoldo di Lorena trasformerà la wunderkammer in museo di belle arti, rimuovendo gli strumenti scientifici, le armi e le arti minori, in ottemperanza al criterio razionalista che inizierà a distinguere la scienza dall’arte. Fine dell’eclettismo rinascimentale. 

Piazza Vittorio
Piazza Vittorio

La nascita dei musei moderni

Se si escludono i proto-musei di Ur e di Alessandria, è nella cultura settecentesca illuminista che nascono i primi musei pubblici: il British Museum di Londra sorge sedici anni prima degli Uffizi, nel 1753. Il museo moderno si afferma con la Rivoluzione Francese: tutti gli uomini, senza distinzione di censo o di classe, hanno il diritto di accedere alle collezioni di re e nobili ormai confiscate e dichiarate proprietà del popolo. Il Louvre di Parigi nasce così, con l’arte che compie un colpo di stato, impossessandosi della residenza parigina del re di Francia e diventando patrimonio pubblico, prima dei francesi e poi dell’umanità. In un’ottica per la quale l’Italia intera, sarebbe un unico museo possibile, forse si potrebbe arrivare a pensare che molte delle piazze d’Italia siano di per sé patrimonio dell’umanità. 

L’arte pubblica nell’antichità

La storia dell’arte nelle piazze sembra inversamente proporzionale a quella dei musei. Mentre questi crescono inesorabilmente da due secoli e mezzo, i fasti antichi dell’arte cittadina, riflessi in quel poco che è giunto a noi della statuaria classica, sono in contrazione. Già la civiltà cristiana, quando diventa religione imperiale nel 380 d.C., con l’editto di Tessalonica che proibisce i culti pagani, avverte nelle sculture bronzee romane il mettersi in forma di demoni. La nuova Roma delle chiese sarà eretta con i marmi degli edifici pagani. Ancora nel Barocco, cardinali e papi (celebre è Urbano VIII, un Barberini), useranno il Colosseo come cava e il Pantheon come miniera. Sarà Roma a dire, attraverso la sua più celebre statua “parlante”, Pasquino: “Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini” (quello che non hanno fatto i barbari, lo hanno fatto i Barberini). Una descrizione di Roma nel 546 d.C., tratta da un manoscritto della raccolta siriaca custodito nella Biblioteca Vaticana (il numero 14), riporta la quantità di statue in bronzo presenti in Roma: sono 3.890, esposte nei luoghi pubblici dell’urbe. Non sono conteggiate quelle in marmo, né quelle di proprietà privata. Ciò rende l’idea del peso estetico e politico dell’arte pubblica dell’epoca. E questa è la situazione dopo le devastazioni barbariche e la fine dell’Impero Romano d’Occidente. Nei secoli precedenti, Roma esibiva anche statue in oro, in argento e un numero altissimo di statue in marmo variopinte. Era una Las Vegas della statuaria.

L’arte pubblica dalla modernità alla contemporaneità

Se barbari e papi decretano la fine dell’arte pubblica antica, la sua pratica rinascerà nella modernità europea con l’idea del monumento inteso come celebrazione delle virtù civili e militari, e come incitamento alla memoria. Nel monumento si “inscrive” la storia. La capacità del monumento di fissare un dominio e di celebrare un’identità fornisce quel fil rouge che unisce la statuaria classica, rinascimentale e moderna fino alla Statua della Libertà, posta alla porta d’ingresso degli Stati Uniti. Attraverso l’arte in piazza, le civiltà monumento-centriche si àncorano alla propria storia, definendosi come dominatrici, vittoriose e memori. La parabola moderna della scultura esposta nella pubblica piazza inizia con il Gattamelata di Donatello, nel 1445 a Padova, a cui succede nel 1536 la piazza del Campidoglio progettata da Michelangelo per la visita di Carlo V a Roma, che pone al centro quella statua di Marco Aurelio a cui Donatello si è ispirato. Questa è l’unica statua equestre di epoca classica giunta integra fino a noi; realizzata nel 176 d.C. per il Foro Romano, si salva dalla fusione grazie alla sua errata attribuzione. Pensando che fosse il ritratto del primo imperatore cristiano, Costantino il Grande, Papa Paolo III istituirà perfino una carica onorifica, quella di “Custode del cavallo”, al fine di proteggere l’opera. La storia fa il suo corso e nel settembre del 2010 L.O.V.E. di Maurizio Cattelan compare di fronte a Palazzo Mezzanotte, sede della Borsa di Milano, in piazza degli Affari, come monumento allo zeitgeist finanziario produttore di crisi: è una mano tesa (nel saluto fascista, parrebbe), ma con un solo dito rimasto intatto e dritto: il medio. È come se il Palazzo facesse il gestaccio ai cittadini. Doveva restarvi soltanto due settimane ed è ancora lì.

Il ruolo delle piazze

Le piazze hanno una storia tutta loro: vi si consumano riti politici di massa, dalla ghigliottina fino alle adunanze totalitarie. Vi si mettono in scena i copioni ideologici di teocrazie e autarchie. Le rivoluzioni e le insurrezioni passano di lì, abbattendo le statue del dittatore, il quale, una volta scomparso fisicamente, viene cancellato dall’immaginario. La damnatio memoriae scatta come un istinto. Ciò prova che non si può imporre per decreto l’arte in piazza: non dura. Allo stesso modo, dalle piazze americane si leva la rabbia degli eredi dei popoli colonizzati e schiavizzati contro le figure decisive della storia d’Occidente e americana, tra cui quel Cristoforo Colombo reo di aver “scoperto” l’America. La furia anti-colonialista spira minacciosa, intende “riscrivere la storia” anche attraverso un nuovo intervento sulle piazze. Ma la storia non è ancora finita, non finisce mai, quindi è logico aspettarsi ulteriori future “performance” spontanee di attori sociali in piazza. La domanda che si apre è: se abbattere le statue diventa accettabile, cosa ricostruire al posto di ciò che è distrutto? Le minoranze hanno i propri eroi e martiri, ma basta ciò a ripristinare la storia nella sua complessità e stratificazione? Forse servirebbe individuare figure comuni, personaggi storici che siano eroi di tutti i mondi, accettabili da tutte le civiltà. 

Piazza San Giovanni in Laterano a Roma, render. Courtesy One Works
Piazza San Giovanni in Laterano a Roma, render. Courtesy One Works

I privati all’arrembaggio delle piazze

Oggi, siamo in presenza anche di piazze pubblicamente “offese”. Polemiche ricorrenti esplodono per piazza della Signoria a Firenze, occupata ogni anno da sculture che immancabilmente creano scompiglio. La piazza è il luogo di un crescente interesse privato, tra consenso e scandalo. Esporre nelle piazze sembra essere la nuova frontiera. Gli spettacoli da stadio sono trasferiti in piazza: dai concerti pop alle partite di calcio videotrasmesse. La piazza è il luogo di una nuova contesa estetica. In un tempo senza più eroi (anche se ve ne sono, non li riconosciamo più) resta da capire se vi sia un cambiamento del ruolo sociale della piazza e del suo statuto est-etico. Ma cosa vogliamo dalle piazze? E chi dovrebbe gestirne l’arte che accolgono? Senza una riflessione seria su ciò, lo spazio pubblico per eccellenza rimarrà in balia dei vizi privati. E che ciò dia automaticamente come risultato una pubblica virtù, è questione non del tutto chiara. Le capacità della piazza sono enormi, ma se è usata soltanto come palcoscenico, allora essa offre soltanto visibilità. E invece sarebbe lo spazio perfetto per una educazione dello sguardo pubblico e del gusto di domani. Per cui attenzione a sponsorizzare nelle piazze un’arte della sensazione. Se è vero che sa rappresentare bene ciò che sta accadendo nelle nostre comunità, è anche vero che essa non sa segnare una direzione verso il futuro. L’arte nelle piazze deve offrirsi come un faro nella notte per i naviganti della Storia che noi tutti siamo. Le piazze virtuali spalancate dalla tecnologia globalizzata, la caduta delle ideologie e la post-verità, l’analfabetismo di ritorno e l’apertura di “strillatoi” virtuali, necessitano di un’arte pubblica che sia sempre più gigantesca dal punto di vista etico.

Nicola Davide Angerame

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Nicola Davide Angerame

Nicola Davide Angerame è filosofo, giornalista, curatore d'arte, critico della contemporaneità e organizzatore culturale. Dopo la Laurea in Filosofia Teoretica all'Università di Torino, sotto la guida di Gianni Vattimo con una tesi sul pensiero di Jean-Luc Nancy, inizia la collaborazione…

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