Van Gogh, tra grano e cielo. Una mostra alla Basilica Palladiana racconta la vita del maestro

Il curatore Marco Goldin torna a Vicenza con l’attesissima monografica su van Gogh e si pronosticano afflussi record: un viaggio inedito nel laboratorio dell’anima del “grande folle” olandese.

I paesaggi dell’anima si rispecchiano negli occhi di Vincent van Gogh (Zundert, 1853 – Auvers-sur-Oise, 1890): il curatore Marco Goldin ricostruisce le stagioni della vita del “grande folle”, dalle tenebre olandesi al bagno di luce nel sud francese. Nella penombra delle sale della Basilica Palladiana, le opere si spalancano come finestre luminose: più di 80 disegni dialogano con le tele, in un legame indissolubile tra potenza dell’immagine e atto, mentre sulle pareti si susseguono gli estratti dalle lettere al fratello Théo, intimi ritratti d’inchiostro. “I disegni sono come il seme, e più si semina più si può sperare di raccogliere”, così diceva van Gogh. Quel seme da lui invocato germina nell’aurora degli anni olandesi, durante i quali l’artista apprende la “grammatica dell’anima” e racconta la propria solitudine attraverso l’immediatezza della matita. Studia un’umanità appassita nella fatica del vivere, ma autentica: isole anonime, ombre di fango e silenzio, i volti consumati dal carboncino.

I DIPINTI “POPOLARI”

Mani troppo grandi, nodose come salici, schiene curve di zappatori e seminatori che distolgono lo sguardo, mietitori di spalle; mani che cuciono, congiunte in preghiera; un vecchio nasconde la testa calva tra le mani. van Gogh non fu “pittore per vocazione”, ma “per disperazione”, scrisse Argan: tra delusioni artistiche, i morsi della miseria e la speranza di essere accettato, come uomo e come artista. È questa la storia di un raccolto tardivo, non un pazzo ma un precursore nomade, che vendette un unico quadro in tutta la sua vita, per poi ispirare un’intera avanguardia e diventare mito dopo la morte.

TUTTO NEGLI OCCHI E TUTTO NELL’ANIMA

Van Gogh intraprende un sentiero sperimentale, parallelo ma solitario, che lo conduce sotto il cielo del mezzogiorno francese. La natura della Provenza si piega alla vertigine delle sue emozioni: non è dinanzi, ma sempre di più, fino a morirne, è dentro quell’uomo davanti al cavalletto. Ogni cosa si anima di una vita misteriosa, esiste violentemente sulla tela, mentre Vincent svuota se stesso in paesaggi limpidi e brillanti, brevi e improvvise accensioni di felicità. Le architetture dell’istituto psichiatrico di Saint-Rémy rivivono in un grande plastico: quando il pittore, assetato di luce, lasciava il giardino ombroso dell’ospedale, amava perdersi alla deriva nel mare rosso dei papaveri, tra sconfinati filari di lavanda, intrecci di vigneti, ulivi d’argento. La tela si lacera sotto il ritmo delirante delle pennellate, righe di pioggia azzurra e viola fendono la visione di Auvers come sbarre di una gabbia dorata.

L’ARTE COME «MESTIERE DI VIVERE»

I litigi con Gauguin, la mutilazione dell’orecchio donato a una prostituta, assenzio e nevrosi: la notte scende su di lui come una sinfonia ancestrale; i campi respirano e aprono sentieri senza fine tra le onde di spighe, battuti da ali nere di cattivi presagi. Si semina, si raccoglie: nel mezzo c’è la sofferenza di un uomo dal talento folle che vincerà la sua partita contro l’oblio, spiga anomala falciata troppo presto. Cercò la salvezza in un colpo di rivoltella guardando a quella linea sottile all’orizzonte, tra il grano e il cielo. Il filo si spezza, la sedia ondeggia vuota, ma i suoi girasoli non appassiranno mai.

– Serena Tacchini

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Serena Tacchini

Serena Tacchini

Serena Tacchini è laureata in Lettere moderne presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, con una tesi in letteratura italiana sul colorismo poetico del padre dell’ermetismo, Camillo Sbarbaro. Attualmente si sta specializzando in Archeologia e Storia dell’arte presso lo…

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