Da museo a mattatoio. Il futuro del MACRO di Roma secondo Gabriele Simongini

Il MACRO di Roma cambia nome e torna a essere identificato come il “mattatoio”, alludendo alla sua funzione originaria. Conseguenze e rischi nell’editoriale di Gabriele Simongini.

Certe volte in una sola parola si annida il significato segreto di una situazione emblematica. Ad esempio la “mattanza” dell’arte e della cultura romana, intrapresa quasi scientificamente dalla giunta grillina con la regia del Vicesindaco e Assessore alla crescita culturale Luca Bergamo, è testimoniata da una scelta lessicale quanto mai infelice: togliere il nome, ormai noto internazionalmente, di “MACRO Testaccio” ai due padiglioni espositivi di Largo Orazio Giustiniani per ricordare tristemente a tutti noi la precedente funzione di quel luogo e ridargli il nome di “Mattatoio”. Perché spazi destinati alle mostre o alle “arti performative”, come ama dire Bergamo, devono richiamare orgogliosamente l’efferatezza e i fiumi di sangue che contraddistinguono gli edifici preposti alla macellazione di animali? Perché cancellare la rigenerazione benefica di quel luogo e di quel nome che era stata intrapresa in tanti anni con le mostre di “MACRO Testaccio”? Perché inseguire ossessivamente la “damnatio memoriae” di quel che è stato fatto, pur nel bene e nel male, dalle giunte precedenti, senza coltivare un minimo di continuità istituzionale per le cose positive? Ora molti artisti provano ribrezzo per l’ipotesi di esporre in un posto chiamato e pubblicizzato come Mattatoio. E poi, in realtà, un mero cambiamento di nome non porta automaticamente un rinnovamento culturale, se non ci sono strategie precise. Infatti, non c’è alcuna idea innovativa su come utilizzare i due padiglioni, entrati a far parte dell’Azienda Speciale Palaexpo, tanto che si continuerà per chissà quanto tempo con una programmazione randomica e casuale, come prova ad esempio la mostra di tre artisti romani in programma per giugno che si sarebbe adattata perfettamente nelle vecchia programmazione del defunto “MACRO Testaccio”.

Luca Bergamo

Luca Bergamo

LA FINE DI UN DIALOGO COSTRUTTIVO

Oltre tutto, è stato spezzato quel dialogo, che preludeva a una vera e propria sinergia, con altre istituzioni gravitanti su quell’area come l’Accademia di Belle Arti di Roma e la Facoltà di Architettura di Roma Tre. Del resto, il MACRO, nella sua doppia articolazione di via Nizza e appunto Testaccio, ormai non esiste più e la sede centrale è stata ribattezzata “MACRO Asilo” (anche se per ora ospita solo la mostra dei Pink Floyd, che si sta rivelando un flop di visitatori perlomeno rispetto alle attese e al paragone con la strepitosa mostra presentata a Londra). Si passa così da una parola che ricorda le tenerezze della scuola d’infanzia o anche l’accoglienza del rifugio, destinato a confortare l’ego (come accade sui social network dove il pronome più usato è un ossessivo “io”) di tutti coloro che autocertificano di essere artisti, a un’altra che evoca invece sangue e macello. Come dire, la giunta grillina dal punto di vista culturale e lessicale usa con i romani “il bastone e la carota” e li allieta con uno spettacolo a tutto campo che va appunto dall’asilo al mattatoio.

Giorgio De Finis

Giorgio De Finis

POSTERITÀ E POST

Nel frattempo Giorgio De Finis, “direttore” del MACRO di via Nizza, affronta i primi problemi concreti e pensa di frammentare gli spazi interni per creare tanti pseudo studi per “artisti in vetrina”, dovendo però fare i conti con il rispetto dovuto al progetto di Odile Decq, mentre appare sempre più difficile mantenere la promessa di una programmazione giornaliera, dal prossimo ottobre. La vittima è il Museo, sacrificato sull’altare del populismo culturale e dell’intrattenimento più superficiale. E già nel 1935 sembrava aver capito tutto Paul Valéry: “Le arti non si adattano alla fretta. I nostri ideali durano dieci anni! L’assurda superstizione del nuovo – che ha spiacevolmente sostituito l’antica eccellente fiducia nel giudizio della posterità – assegna agli sforzi il fine più illusorio e li spinge a creare ciò che vi è di più perituro, ciò che per sua natura è perituro: la sensazione del nuovo”. Il “giudizio della posterità”, come lo definiva Valéry, è oggi sostituito dai sommari e bruschi giudizi sui post dei social network, destinati a consumarsi nel nulla, in pochi attimi. Insomma, dalla posterità al post.

Gabriele Simongini

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