Danza. Sergei Polunin, l’ucraino volante e icona pop

Un docufilm, “Dancer”, e uno spettacolo, “Satori”, raccontano la vita del grande ballerino ucraino dal passato turbolento, alla ricerca della sua libertà artistica. Due ritratti rivelatori di un giovane che ha lottato per affrontare traumi famigliari e il peso del suo straordinario talento.

È stato definito “il nuovo Nureyev”. Definizione che ben gli si addice, e va oltre, per il talento da fuoriclasse, il naturale carisma scenico, la tecnica d’acciaio, il virtuosismo felino e morbido, l’esplosione di energia delle sue magnetiche performance con quei salti sospesi e le piroette in aria, che lo hanno fatto accostare al leggendario ballerino russo. Ma Sergei Polunin (Cherson, 1989) non ha il divismo da star, bensì una naturalezza e una sincerità che lo fanno essere sempre se stesso in scena e nella vita, con quella carica di umanità e di innocenza, e quel senso di libertà e di ricerca che continuano a segnarlo anche nella vita artistica. Frettolosamente gli è stato affibbiato dalla stampa l’attributo di “bad boy” – definizione che egli rifiuta – per via delle sue passate trasgressioni: droga, eccessi, affermazioni provocatorie, sparizioni. E poi quelle cicatrici sul petto e i tatuaggi in molte parti del corpo che disegnano una vera mappa di tutta la sua vita, dove il tattoo più visibile, il Kolovrat, la “ruota” simbolo di una divinità solare slava, è sugli addominali. Segnali tutti di un crescente malessere interiore e di una sofferenza (legata anche alla separazione dei genitori), che a soli 24 anni, e nel pieno del successo, gli avevano fatto decidere di abbandonare la danza. Ma Polunin non rientra in quel facile binomio di “genio e sregolatezza” o di “bello e dannato” con cui prontamente si voleva etichettarlo. La fama e la fulminante carriera sono legate all’innegabile bravura di ballerino.
Nel 2015, dopo la crisi e una peregrinazione artistica attraverso i teatri russi, gira un clip che doveva rappresentare il suo addio alle scene. Invece è l’inizio di una nuova vita, di un equilibrio e di una nuova libertà. Il suo nome è oggi conosciuto non solo dagli appassionati di balletto, grazie proprio a quel Take me to Church, video firmato da David LaChapelle con la coreografia di Jade Hale-Christofi, che diventa ben presto virale su YouTube, visualizzato oltre 22 milioni di volte, in cui, l’oggi ventottenne ballerino ucraino, danza sulla canzone di Hozier un lancinante assolo per fare pace con se stesso.

Sergei Polunin in Satori. Photo ® Rolando Paolo Guerzoni

Sergei Polunin in Satori. Photo ® Rolando Paolo Guerzoni

LUCI E OMBRE

Il lato oscuro della sua vita lo si può conoscere nel biografico film-documentario Dancer di Steven Cantor che, attraverso interviste e filmati di archivio, ricostruisce le vicende famigliari e artistiche del prodigio della danza intrapresa da bambino nella povera città di Cherson, nell’Ucraina degli Anni Novanta. Desiderosi di garantirgli un futuro sulla strada dell’arte – disciplina, quella della danza classica, da sempre molto popolare nei Paesi dell’Est anche tra i ragazzi – i giovani genitori (che successivamente si separeranno segnando fortemente l’animo del figlio) compiranno sacrifici enormi per poterlo mantenere agli studi (il padre va a lavorare come operaio in Portogallo, la nonna in Grecia). Con la madre si trasferisce a Kiev per studiare al Kiev’s State Choreographic. Poi, nel 2003, grazie a una borsa di studio della Rudolf Nureyev Fondation, Polunin accede, a 13 anni, alla British Royal Ballett School di Londra. Anni di duro lavoro, di dedizione esclusiva alla danza, ma anche di solitudine e di sofferenza per la lontananza dalla famiglia. Brucia le tappe. Quei sacrifici sono coronati appena sei anni dopo, nel 2010, dalla nomina a primo ballerino, il più giovane della storia del prestigioso Royal Ballet. Quegli anni saranno segnati successivamente anche dalla ribellione che lo porterà ad abbandonare improvvisamente, con grande scalpore, la prestigiosa compagnia perché insofferente all’ambiente e alle costrizioni. “Sentivo che l’artista che è in me stava morendo”, ebbe a dichiarare. Non voleva diventare un prodotto, una macchina da soldi, ma fare di sé stesso pura arte. Sfuma però il sogno di andare in America. Nessuna compagnia lo vuole perché bollato di inaffidabilità. Ripiega in Russia e riparte da zero partecipando a un talent show. Ed è grazie a Igor Zelensky, all’epoca direttore del Teatro Stanislavskij di Mosca, che ricomincia la sua ascesa. Diventa primo ballerino a San Pietroburgo, mantenendo però la libertà di potersi esibire altrove e impegnarsi in progetti personali. Tra questi il recente Project Polunin, creato per unire ballerini, coreografi e altri artisti. Fa parte del progetto lo spettacolo Satori approdato anche in Italia al Regio di Parma e al Comunale Luciano Pavarotti di Modena per “Modenadanza” (dove lo abbiamo visto), che ha riunito alcuni interpreti provenienti dal Bolshoi, dal Teatro Stanislavskij di Mosca, e dal Balletto del Cremlino, e Natalia Osipova, stella della Royal Opera House, fidanzata e partner di Polunin.

Sergei Polunin in First Solo di Andrey Kaydanovskiy. Photo ® Rolando Paolo Guerzoni

Sergei Polunin in First Solo di Andrey Kaydanovskiy. Photo ® Rolando Paolo Guerzoni

LO SPETTACOLO

Lo spettacolo si apre con il breve assolo First Solo, del coreografo Andrey Kaydanovskiy su musiche originali, quasi il marchio di un viaggio alla scoperta di sé che mostra, attraverso quel corpo scolpito e psicologicamente segnato, l’irrequietezza di Polunin tra posture rabbiose, cadute, agonie e risollevamenti, e la grazia riconquistata fino a incamminarsi verso il futuro. Col secondo brano, Scriabiniana, Polunin rende omaggio al balletto sovietico del primo Novecento, rispolverando un titolo storico (del 1962), a noi sconosciuto, di Kasyan Goleizovsky, coreografo che trascorse gran parte della sua carriera in conflitto con l’autorità del Bolshoi, e in seguito riabilitato. Scriabiniana si compone di undici parti sulle musiche di Aleksandr Scriabin. Nella composizione sono evidenti quelle forme di movimento nello spazio e scolpite nell’aria da corpi bilanciati e fluidi contro la gravità che sicuramente influenzarono la futura ricerca coreografica del maestro del neoclassico George Balanchine. Il brano è una successione di passi a due senza una trama precisa, un caleidoscopico alternarsi di ritmi e di stati d’animo ora lirici, ora tormentati, ora sensuali, esteticamente piacevoli da ammirare. Ma il più atteso era Satori, brano dichiaratamente autobiografico del quale Polunin firma la sua prima coreografia. Rifacendosi al termine buddista giapponese del titolo, che significa “risveglio improvviso” o “illuminazione”, questa nuova creazione ‒ che si avvale delle scene di David LaChapelle e delle musiche originali di Lorenz Dangel ‒, rappresenta il proprio percorso di ricongiungimento fra l’amore per la danza e la passione per l’arte, passando attraverso le vicende che lo hanno segnato, fino alla rinascita. Sulla scena dominata inizialmente da una moltitudine di piccoli monitor sospesi, sui quali scorrono rumori e voci di un mondo virtuale, campeggia quale elemento fisso un grande albero sotto il quale siede per poi staccarsi Polunin e iniziare il suo percorso di ricerca verso l’illuminazione.
La comparsa di una donna – Elena Solomianko in sostituzione, a Modena, di Natalia Osipova –, che rappresenta “lo spirito della sua essenza più pura”, lo spingerà nelle profondità del suo sé interiore affrontando i demoni della sua coscienza sepolta. Ed ecco, tra lo scorrere di nuvole, bianchi teli, ombre minacciose e altre simbologie, apparire un ragazzino a evocare i ricordi d’infanzia, l’innocenza perduta, l’amore e il distacco dalla madre; e poi le lotte, i turbamenti, le gioie, le aspirazioni, le ribellioni. Se è innegabile la bravura di Polunin, che cattura l’attenzione per l’intensità espressiva e lo spirito che lo anima, che conquista per le prodezze virtuosistiche mandando in visibilio le schiere di fans accorsi, l’insieme risulta appesantito oltre che da una scenografia sovraccarica soprattutto da una tessitura drammaturgica e coreografica che fanno fatica a fondersi e a trovare un linguaggio di movimento meno retorico, più vario e ricco di sfumature gestuali. Lo spettacolo andrebbe forse ripensato mettendolo nelle mani più esperte di un coreografo consolidato e dal vocabolario più moderno il quale, senza tradire le intenzioni, lo possa ripulire dei molti cliché con cui è costruito, perché possa acquistare quella bellezza profonda e originalità che gli mancano. Ce lo auguriamo. Come ci auguriamo che Polunin sappia gestire con oculatezza le sue prossime scelte artistiche ‒ magari con la guida di un mentore come lo è stato Igor Zelensky ‒ senza farsi distrarre troppo dal mondo fashion che ultimamente lo corteggia, a scapito della dispersione di uno straordinario talento da coltivare e preservare, oggi a maggior ragione, con più accurato impegno. Desideroso di continuare a crescere, imparare e progredire, curioso anche di sperimentare altri linguaggi, Polunin intanto ha intensificato la sua presenza al cinema dopo l’esordio nel recente film di Kenneth Branagh Assassinio sull’Orient Express nei panni del conte Andreny, e successivamente in altri di prossima uscita: Red Sparrow, thriller di Francis Lawrence; The White Crow, con Ralph Fiennes, film basato sulla vera storia della fuga in Occidente di Rudolf Nureyev, con Polunin nel ruolo tragico di Yuri Soloviev, altra grande stella della danza russa, morto suicida a soli 37 anni; e Lo schiaccianoci e i quattro regni con Keira Knightley, Morgan Freeman ed Helen Mirren.

Giuseppe Distefano

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Giuseppe Distefano

Giuseppe Distefano

Critico di teatro e di danza, fotogiornalista e photoeditor, fotografo di scena, ad ogni spettacolo coltiva la necessità di raccontare ciò a cui assiste, narrare ciò che accade in scena cercando di fornire il più possibile gli elementi per coinvolgere…

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