World Breakers. Tutti i mondi di Dro

World Breakers. Ossia: nessun luogo rimane per sempre immutato. Questo il tema della 36esima edizione di Drodesera, alla Centrale Fies. Il festival appena concluso ha parlato di mondi che cambiano, si rompono, ecosistemi in frantumi o sopravvissuti a catastrofi epocali.

Tanto video, non necessariamente d’arte. L’attore al suo cospetto è esiliato, svuotato, impoverito o ridotto a doppiatore statico e riflesso di un’estetica fin troppo autoreferenziale e metalinguistica. Dove ancora l’attore sopravvive alle tendenze del performer (o dell’installazione) lascia il posto del rapporto gesto-azione all’oggetto o al racconto di se stesso, o ancora al facile ripiegamento nell’interazione con il pubblico. Se la scatola dello spettacolo rivendica le sue esigenze, allora sono i temi a prendere il sopravvento e il testo retrocede fino alla lallazione gutturale. Queste lampadine hanno vibrato alla centrale elettrica di Fies nelle notti di fine luglio. Ve ne restituiamo qualche filamento.

LIVE WORKS
250 candidature giunte da 27 Paesi, 9 i finalisti selezionati per un mese (luglio) di residenza creativa. L’edizione di Live Works ha ritrovato per la quarta volta nella rassegna di Fies il suo essere “piattaforma dedicata alle pratiche contemporanee live che contribuiscono all’approfondimento e all’ampliamento della nozione di performance, seguendo l’attuale spostamento del performativo e delle sue cifre”. In altri termini, la performance riacquista la sua identità fluida, il suo essere esercizio culturale, la sua dimensione dinamica, che considera gli spazi della Centrale come luoghi di lavoro aperti alla contaminazione con la critica del pubblico, con le implicazioni sociali del presente. Performativa è anche la fase di produzione, con le incursioni della critica, le discussioni e la condivisione come monitoraggio continuo.
Barbara Boninsegna, Denis Isaia, Daniel Blanga Gubbay, Simone Frangi hanno scelto come artisti finalisti Quenton Miller, Brud, Rosa Sijben, Teresa Cos; Jacopo Jenna, Marion Menan, Sven Sachsalber, Evelin Brosi Doyle, Maxime Bichon e Andrea Liu. I loro lavori sono stati presentati in tre serate, da lunedì a mercoledì. Ogni serata è stata introdotta da un guest performer internazionale: Nástio Mosquito, Pauline Curnier Jardin e Guido van der Werve. La  giuria internazionale composta da Aaron Cezar (direttore, Delfina Foundation, Londra), Beatrice Merz (presidente, Fondazione Merz, Torino), Charles Aubin (curatore associato, Performa, New York City e Fondation Galeries Lafayette, Parigi), Lorenzo Benedetti (curatore Indipendente, Parigi-Amsterdam), Marwa Arsanios (artista, fondatrice di 98Weeks Research Project, Beirut) ha scelto Maxime Bichon, che ha affrontato con un video la tematica della caduta libera (atto finale di una ricerca sul paracadutismo).
La danza ha poca vetrina a Fies ma il lavoro di Jacopo Jenna ci basta, perché il danzatore fiorentino fa il punto sui processi di trasmissione e contaminazione tra i linguaggi coreografici. Misurare lo spazio, essere nel tempo presente del controllo e della perfezione del gesto è pulizia rara a vedersi. Jenna ha smontato l’engramma paradigmatico di Michael Jackson come farebbe un Douglas Gordon con Psyco e l’ha rimontato mantenendone la partitura riconoscibile, ma espandendone la grammatica di base con improvvisazioni. Una sorta di spartito la cui misura temporale è rispettata, ma il risultato finale è la somma di tempi diversi: pause, accelerazioni, silenzi, voce. Jenna conta i passi come Bruce Nauman nei suoi primi video rimaneva nel quadrato bianco (Cruising To Drake On The Block).

Pauline Curnier Jardin, Resurrection-Plot, photo Andrea Pizzalis per Centrale Fies

Pauline Curnier Jardin, Resurrection-Plot, photo Andrea Pizzalis per Centrale Fies

IL BRUTTO
Se brutto deve essere, come ha sottolineato Franco Cordelli da Avignone, che brutto sia, fino in fondo, con i rischi che il brutto porta con sé: alienazione di senso e coraggiosa sopportazione del male. Ci sarebbe piaciuto che The Resurrection Plot di Pauline Curnier Jardin avesse osato fino in fondo nel kitsch. Almeno nella forma. Nei contenuti i riferimenti spaziano dal mito di Frankenstein a quello dell’anatomista Gunther von Hagens. Anche se le forme degli oggetti in gommapiuma partoriti da un magma gommoso ci ricordano tanto gli oggetti dello Store di Oldenburg.
Il resto è un cabaret alla Brecht di apparizioni che come tali tarpano il decollo drammaturgico dello spettacolo. Della serie: chi più ne ha più ne metta. Perché che in questo universo di Max Ernst gli uomini si contaminano con gli animali ma il degrado da Cecità di Saramago è una pastoia che vorrebbe alludere alle plastificazioni dell’artista Gunther von Hagens rimanendo nell’universo allucinato di Bosch (cosa sarebbe altrimenti quel sedere che spunta dalla gomma?) mentre una donna uscita da una tela di Tamara de Lempicka salmodia i modi di trasformare il Bio Pop in una danza di Matisse.

IL VIDEO
Ci ha commosso, emozionato il video Zvizdal dei Berlin. Il titolo è il nome di quel che resta di un paesino nell’area contaminata di Chernobyl. Due anziani non se ne sono voluti andare e la loro resistenza, poetica ed esistenziale, vale da sola il tema dell’edizione di Fies dedicata a World Breakers.
Ma se consideriamo il lavoro non come la punta di un iceberg (raffinatissimo) ma nella sua processualità, allora non capiamo il dispendio economico e produttivo per realizzare i tre modellini girevoli con telecamera sotto lo schermo della proiezione. La dignità del video, immune dall’essere considerato un film nonostante la narrazione, non aveva bisogno di uno scafandro rotante con telecamere.

Maxime Bichon, Act III, Like a flag within a frame, photo Alessandro Sala

Maxime Bichon, Act III, Like a flag within a frame, photo Alessandro Sala

LO SGUARDO
È una questione di sguardi avrebbe scritto Berger. Almeno di tre tipi, in altrettanti lavori. Innanzitutto la riflessione “meta” del Teatro Sotterraneo. Ci ricordavamo dell’ironico Post-it di una decina d’anni fa: entrare e uscire dallo spazio del palco come una revisione di quell’accedere e uscire dalla vita che Kantor tradusse ne La classe morta. Questa volta il palco è un set per l’indagine sul vedere. Postcard from the future è più di una proiezione sul futuro umano e le sue condizioni di esistenza, è piuttosto un’interpretazione (ancora una volta fresca e ironica) del ruolo dello spettatore che il caso (un braccialetto nero o bianco) divide tra voyeur e player. C’è chi guarda altri che fanno e a sua volta si è guardati dall’occhio meccanico della macchina fotografica e infine i visti e i vedenti si confondono in un’umanità che non ha nemmeno più il linguaggio per comunicare. In questo riverbero di sguardi, l’interattività è solo una tautologia anti-teatrale.
Agli antipodi il lavoro degli Anagoor, che dislocano il recitato dall’immagine, commentando la solita raffinatezza estetica di quest’ultima con un parlato che andrebbe revisionato dalla dizione. Fissità dei ruoli davanti al microfono e fissità di un testo (quello di Antonio Scurati) che andrebbe alleggerito del peso letterario a favore di una ritmica teatrale. Comunque la tensione che regge la doppia morte (quella di Socrate e quella inflitta da Vitaliano Caccia ai suoi docenti) regge e pure il mito della compagnia veneta.
In mezzo ci sta il lavoro di Vanja Smiljanic, l’anno scorso uno studio e ora una lungaggine che commenta i video di un improbabile popolo cosmico in guerra contro i Sauriani. I tempi dello studio erano più congrui, qui il rapporto attore/video rischia l’effetto didascalia.

Simone Azzoni

www.centralefies.it

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Simone Azzoni

Simone Azzoni

Simone Azzoni (Asola 1972) è critico d’arte e docente di Storia dell’arte contemporanea presso lo IUSVE. Insegna inoltre Lettura critica dell’immagine e Storia dell’Arte presso l’Istituto di Design Palladio di Verona. Si interessa di Net Art e New Media Art…

Scopri di più