Arte, politica e società: non solo Biennale di Venezia

Se durante le vostre passeggiate biennalesche avete incontrato una banda di persone vestite in assetto antisommossa e non avete capito che diamine stava accadendo, leggete questa intervista a Mike Watson. È il co-autore con Harold de Bree della performance nell’ambito del progetto “Jump into the Unknown”. I risultati e le reazioni del pubblico (e non solo) le trovate qui.

Jump into the Unknown: partiamo dai presupposti da cui è partito il progetto. E la cornice in cui si colloca.
Harold de Bree è stato invitato a partecipare alla 56. Biennale d’Arte di Venezia con la fondazione sudcoreana Nine Dragon Heads come parte del progetto collaterale Jump into the Unknown. Harold ed io eravamo entrambi molto interessati a cogliere il movimento naturale delle persone a Venezia e a utilizzarlo per indirizzarle a interrogarsi su determinati argomenti. In linea con i miei interessi sull’istruzione libera e antigerarchica, questo faceva sperare che avremmo potuto sviluppare un’azione che avrebbe portato le persone a interrogarsi e dialogare sull’importanza del tema “sorveglianza e Stato”.

E cos’avete pensato?
In principio la pratica di Harold consisteva nel produrre copie di armi e attrezzature militari, come in occasione della settima Manifesta di Bolzano (nel 2007), quando fece una copia di un Bailey Bridge.
In questo caso, abbiamo deciso di coinvolgere sei performer nel ruolo di agenti di sorveglianza che si muovevano su una barca militare durante i giorni dell’opening della Biennale. Nel corso dei tre giorni di performance, dovevano assumere un ruolo intimidatorio e nel contempo di intrattenimento nei confronti del pubblico, come mezzo di provocazione che avrebbe inevitabilmente coinvolto anche Polizia e Carabinieri.

Biennale di Venezia 2015 - Jump into the Unknown

Biennale di Venezia 2015 – Jump into the Unknown

Da dove è nata l’ispirazione per quest’azione? Siete stati influenzati dalla situazione italiana o la vostra vuole essere una riflessione più generale?
Dato che la mia attività principale in qualità di teorico e curatore è fondamentalmente incentrata intorno alla capacità dell’arte di essere politica, ho colto l’occasione per portare alla luce alcune contraddizioni legate all’arte socialmente impegnata. Ho selezionato alcune parti del mio prossimo libro intitolato Towards a Conceptual Militancy, sulle quali Harold ed io abbiamo apportato delle riflessioni.
La premessa centrale del libro è che i meccanismi del potere sono molto vicini ai meccanismi dell’arte. Sia il potere che l’arte dipendono dalle illusioni, e perciò l’arte può esporre il sofisma del potere imitando direttamente i suoi processi. Si tratta di qualcosa che abbiamo visto in Italia, con il movimento chiamato “Bene Comune”, in particolare al Teatro Valle, all’Isola Art Center di Milano e nella forma ibrida di art-protest intrapresa dal SaLe Docks di Venezia, spesso in connessione con il movimento No Grandi Navi, e da MACAO di Milano.

Ne consegue che…
La considerazione della legislazione, del diritto di proprietà e dell’attivismo quali soggetti per creare situazioni artistiche ha aperto nuove opportunità, sebbene abbia i suoi limiti. Ad esempio, il Teatro Valle – il più vecchio teatro di Roma occupato dal 2012 al 2014 – ha avuto un approccio molto approfondito verso la legge, coinvolgendo la Costituzione italiana e i suoi processi politici, ma in definitiva è stata l’amministrazione politica comunale (il Sindaco del Comune di Roma, Ignazio Marino) che ha avuto l’ultima parola chiudendo il teatro occupato nell’agosto del 2014.
Anche se l’arte può criticare la politica, il potere reale trionferà sempre finché avrà nelle sue mani maggiore ricchezza e il diritto al ricorso della forza e della detenzione dei suoi nemici. Il progetto Machines of Loving Grace è una riflessione su questi temi, con una particolare attenzione verso la filosofia del potere e della sorveglianza.

Biennale di Venezia 2015 - Jump into the Unknown

Biennale di Venezia 2015 – Jump into the Unknown

Raccontaci com’è stata l’esperienza veneziana. Come si sono svolte le varie fasi di progetto e quali sono state le reazioni del pubblico?
Durante la performance uno degli aspetti più interessanti era il costante monitoraggio della polizia, fin dal secondo giorno dei due giorni di training degli attori. L’ultimo giorno di performance un poliziotto in borghese, ai Giardini, ci ha spiegato che la polizia stava ricevendo continue chiamate al 113 da persone del pubblico spaventate. Questo è un fatto di per sé interessante, in quanto i nostri performer indossavano generiche uniformi dei dipendenti dello Stato – come la polizia antisommossa – e non rappresentavano indumenti di dissidenti politici o estremisti religiosi.
Il fatto che le azioni al di fuori dall’ordinario rischino di creare disagio, è la dimostrazione di un presente ed elevato senso di paura in Italia, anche se in realtà un gran numero di persone ha provato un’esperienza positiva. Quello che traspare è che le reazioni dipendono dalla psicologia degli spettatori più che da ogni altra cosa. Anche se i livelli di sorveglianza dello Stato sono più presenti in Occidente, la nostra risposta è una scelta strettamente personale, e dipende dalla nostra salute psicologica. Ad ogni modo la cosa più disarmante che possiamo fare è ignorare la sua esistenza.

Ci sono stati altri episodi di negoziazione?
Sì, soprattutto riguardo alla bandiera che volevamo esporre sulla facciata, verso il Canal Grande, del Palazzo Loredan dell’Ambasciatore, sede dell’evento collaterale Jump into the Unknown. Alla fine ci hanno comunicato che potevamo esporre una bandiera di qualsiasi colore purché non fosse nera (che per inciso è il colore della bandiera anarchica, ma anche della bandiera dei Pirati e dell’ISIS). Avevamo già progettato una bandiera colorata ma abbiamo comunque risposto a questo invito con una pubblicazione disegnata dall’artista danese Magnus Clausen, intitolata Black Flag, nella quale all’interno sono pubblicati i diritti dichiarati al momento dell’arresto ai cittadini appartenenti a ciascuno degli 88 Paesi partecipanti alla 56. Biennale.

È un’azione ripetibile? Pensate di proporla altrove e, se sì, che aspettative avete?
Certamente può essere ripetuta in contesti differenti a seconda della località. Una fiera d’arte sarebbe interessante in quanto le persone, in quel contesto specifico, sono meno rilassate rispetto alla Biennale di Venezia, e forse non si aspetterebbero di vedere ed essere coinvolte in azioni provocatorie.

Biennale di Venezia 2015 - Jump into the Unknown

Biennale di Venezia 2015 – Jump into the Unknown

La tua opinione sulla Biennale?
Questa doveva essere la Biennale di Karl Marx: è presto per giudicare, tuttavia considerato il peso dei presupposti avanzati da Okwui Enwezor potevano esserci molte più opere direttamente politiche, in grado, in altre parole, di intervenire concretamente a livello politico. Date le esperienze in Italia di spazi come il Teatro Valle, il contributo di Enwezor all’arte sociale risulta, a mio avviso, debole, ed è un peccato, dato il suo valido contributo alla curatela negli ultimi decenni. Tuttavia riconosco che la Biennale non è un ambiente facile e il curatore ha indubbiamente le mani legate in molti aspetti.
Inoltre vorrei aggiungere che, sebbene molto sia dovuto al background africano di Enwezor e al suo grande lavoro svolto riguardo all’apertura della fascia occidentale verso il mondo dell’arte africana e oltre, l’approccio relativamente conservatore della Biennale presenta un più profondo e radicato problema di classe. È un festival alto-borghese che vorrebbe beneficiare della presenza proletaria, ma questo è un problema molto più ampio, radicato nel mondo dell’arte, in particolar modo in Italia.

Cosa significa vestire “abiti” differenti? Solitamente tu sei un giornalista e critico, ma anche un curatore, in questa sede sei stato quasi un artista… Com’è stato passare da un linguaggio a un altro e da quale esigenza è nato il bisogno di saltare la barricata?
Harold ed io ci siamo divisi il lavoro, le sue responsabilità erano creare le uniformi e la barca, le mie di creare la coreografia e il design della bandiera, con l’aiuto dell’artista russa Nataliya Chernakova. L’artista Antti Tenetz si è occupato della documentazione video, la quale rimarrà al Palazzo Loredan dell’Ambasciatore per tutta la durata della mostra.
Non so se c’era una reale necessità di “saltare” le barriere dall’essere un critico, teorico o curatore all’essere artista, se non fosse che il termine “curatore” crea un senso di disagio sia in me che in molti artisti, così come nei Nine Dragon Heads. Implica un ruolo manageriale che è indipendente dai processi di produzione. In definitiva, mi piace vedere le cose fatte. Se potessi autodefinirmi, lo farei con un “theorist-producer”.

Santa Nastro

http://9dh-venice.com/
http://www.artribune.com/dettaglio/evento/44670/jump-into-the-unknown/

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Santa Nastro

Santa Nastro

Santa Nastro è nata a Napoli nel 1981. Laureata in Storia dell'Arte presso l'Università di Bologna con una tesi su Francesco Arcangeli, è critico d'arte, giornalista e comunicatore. Attualmente è vicedirettore di Artribune. È Responsabile della Comunicazione di FMAV Fondazione…

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