Il sassolino nella scarpa. Perchè l’Italia impedisce le trivellazioni per cercare petrolio in mezzo al mare? Non si sa, ma ci costa 2 miliardi di euro

Abbiamo cercato le ragioni, sul sito internet del Coordinamento nazionale No Triv: convinti che una mobilitazione tanto imponente, che coinvolge diecine di associazioni, regioni italiane, ministeri, tutto il governo, persino una consultazione referendaria, appoggiasse su ragioni inattaccabili. Su rischi ambientali, su minacce a flora e fauna, magari anche a eventuali reperti archeologici da scavare, in […]

Abbiamo cercato le ragioni, sul sito internet del Coordinamento nazionale No Triv: convinti che una mobilitazione tanto imponente, che coinvolge diecine di associazioni, regioni italiane, ministeri, tutto il governo, persino una consultazione referendaria, appoggiasse su ragioni inattaccabili. Su rischi ambientali, su minacce a flora e fauna, magari anche a eventuali reperti archeologici da scavare, in un non si sa quanto prossimo futuro. Ma ci tocca chiedere l’aiuto di tutti, perché noi finora le ragioni non le abbiamo trovate. Non abbiamo capito perché tante persone in Italia, e di recente – definitivamente – anche il governo italiano, siano sul piede di guerra per impedire le trivellazioni sottomarine alla ricerca di petrolio. O meglio, le ragioni le abbiamo trovate, ma – qualcuno ci corregga se sbagliamo – sono squisitamente ideologiche: si propaganda “la ferma opposizione sociale a proposte, progetti, opere, azioni – di natura politica o industriale – finalizzate alla ricerca ed allo sfruttamento, su terraferma o in mare, di combustibili da fonti fossili e non rinnovabili, ed in particolare di idrocarburi liquidi o gassosi”.

GLI INVESTIMENTI DELLA SHELL SI SPOSTANO DAL GOLFO DI TARANTO AL GOLFO PERSICO
E questo rientrerebbe nel gioco delle parti, ognuno ha le sue idee e le persegue nei modi che crede utili: se non fosse che questa posizione – ripetiamo, eminentemente ideologica – costerà alla collettività 2 miliardi di euro. È quanto scrive Il Sole 24 Ore, nell’informare che “la Shell abbandona i giacimenti nel golfo di Taranto. I 2 miliardi di euro in investimenti che erano stati accantonati per essere impegnati in Italia prendono un’altra strada. Forse andranno nel Golfo Persico, oppure in altre parti del mondo in cui quei soldi fanno gola e dove hanno bisogno di usare le royalty generate dal petrolio”. Eppure, stando ancora alla ricostruzione del quotidiano confindustriale, quattro mesi fa la compagnia aveva ottenuto il via libera ambientale all’analisi del sottosuolo con un decreto di compatibilità firmato dai ministri dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, e dei Beni culturali, Dario Franceschini. Ma poi dieci Regioni hanno ottenuto di indire un referendum per bloccare le attività petrolifere, e “a fine dicembre il Governo, nel tentativo di evitare il referendum, ha vietato tutte le attività nelle acque nazionali, cioè entro le 12 miglia dalla costa”. E tanti saluti agli investimenti, che saranno soltanto spostati in altro mare: mentre in Italia si continuerà a – sempre citando il sito notriv.com – a “diffondere il pensiero post-estrattivista, favorendo la spinta alla transizione energetica ed alla riconversione delle attività produttive, aspirando ad un nuovo modello di sviluppo economico eco-compatibile, equo ed equilibrato”.

Massimo Mattioli

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Massimo Mattioli

Massimo Mattioli

É nato a Todi (Pg). Laureato in Storia dell'Arte Contemporanea all’Università di Perugia, fra il 1993 e il 1994 ha lavorato a Torino come redattore de “Il Giornale dell'Arte”. Nel 2005 ha pubblicato per Silvia Editrice il libro “Rigando dritto.…

Scopri di più