Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch ci valutano ma dimenticano il nostro patrimonio artistico. E la Corte dei Conti 234 miliardi di danni alle agenzie di rating che declassarono l’Italia scordandosi una voce di bilancio che vale il 15% del PIL

Contrordine, ragazzi: con la cultura ora si mangia! E anche pietanze piuttosto succulente se è vero che, numeri alla mano, parliamo di un pranzetto da 234 miliardi di euro: tanti ne avrebbe chiesti – l’indagine è del Financial Times, ribattuta oggi su Il Sole 24Ore e Il Giornale – la Corte dei Conti alle tre […]

Contrordine, ragazzi: con la cultura ora si mangia! E anche pietanze piuttosto succulente se è vero che, numeri alla mano, parliamo di un pranzetto da 234 miliardi di euro: tanti ne avrebbe chiesti – l’indagine è del Financial Times, ribattuta oggi su Il Sole 24Ore e Il Giornale – la Corte dei Conti alle tre agenzie di rating che contribuirono nel recente passato a declassarci senza pietà. Lo Stato tira per la giacchetta i colossi Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch: le loro analisi sul sistema Italia erano state determinanti per il downgrading certificato nel 2011, quello cui imputiamo la fase più drammatica della crisi economica, i conseguenti tentativi di salti mortali dell’agonizzante governo Berlusconi e la successiva pezza tentata da Mario Monti.
Secondo la requisitoria dei giudici contabili italiani i colletti bianchi hanno trascurato nei loro resoconti un aspetto in effetti difficile da calcolare con precisione – considerata la sua natura intangibile – ma non per questo effimero o impalpabile, anzi. Trattasi del patrimonio storico-artistico, liberato dalla sua condizione di inutile orpello e finalmente glorificato a determinante voce del bilancio dello Stato. Non c’è una parola, nei plichi delle agenzie, spesa per la suggestione esercitata da Pompei e dai Fori, per la magia del paesaggio urbano di Venezia o per il fascino di una visita agli Uffizi. Non c’è menzione, insomma, per tutto quel mondo che fa impresa e vive grazie alla messa in valore delle eredità del nostro passato: per godere delle quali i signori di Standard & Poor’s pagano caro e salato stanze d’albergo sul Canal Grande e tavoli in ristoranti vista Fontana di Trevi. Una dimenticanza non da poco se prendiamo i numeri pubblicati dal report annuale di Fondazione Symbola e Unioncamere, che ci dice come i quasi 81 miliardi di euro generati dalle imprese culturali nel 2012 abbiamo creato un indotto superiore a 133 miliardi; all’interno di un sistema che dà lavoro in modo diretto a quasi un milione e mezzo di persone, valendo da solo il 5,4% dell’economia nazionale. Cifra questa che, proprio grazie al discorso sulla “filiera della cultura”, arriva a determinare il 15,3% del PIL.
Non eravamo insomma poi così poveri. Anzi. È semmai la svalutazione da parte delle agenzie di rating ad averci indebolito, incidendo in termini di immagine negativa su un “brand” che di pubblicità vive eccome: chiedere per credere alla Grecia, che massacrata dalla stampa internazionale perse nell’estate del 2012 un milione e mezzo di turisti rispetto all’anno precedente. Proprio nel periodo in cui sarebbe stato opportuno il contributo di un sistema imprenditoriale che vale, da solo, un quinto delle risorse del Paese.
È sulla base di queste riflessioni che la Corte dei Conti batte ora cassa, ottenendo le prime repliche piccate da parte di Standard & Poor’s e Moody’s; ma anche l’apertura di Fitch, che si sarebbe espressa nel segno della collaborazione. Queste le voci raccolte, in attesa che il 19 febbraio la Corte dei Conti comunichi come promesso i dettagli dell’operazione.

Francesco Sala

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