Una sola macchina, un solo obiettivo, la pellicola. Basta questo a Mimmo Jodice, che in Triennale svela il suo modo di fare fotografia: chiacchierata a viso aperto con Lella Costa e ospiti vari

La chiamano lectio magistralis, ma l’ambiente è quello caldo – non solo per l’anticipo d’estate che soffoca Milano – del consesso tra vecchi amici, l’atmosfera pacifica e rilassata. Non manca mai in situazioni del genere il nerd di turno, pungolato dall’irresistibile tentazione di dimostrare che lui ne sa: e così arriva la domanda tecnica che […]

La chiamano lectio magistralis, ma l’ambiente è quello caldo – non solo per l’anticipo d’estate che soffoca Milano – del consesso tra vecchi amici, l’atmosfera pacifica e rilassata. Non manca mai in situazioni del genere il nerd di turno, pungolato dall’irresistibile tentazione di dimostrare che lui ne sa: e così arriva la domanda tecnica che più tecnica non si può. Meglio il 6×6 o i 35 millimetri? E il banco ottico? Il nostro non si scompone, risponde con il candore che fa pendant con quella barba bianca da vecchio eroe omerico: “Uso una macchina, un obiettivo, la pellicola. E basta”. Così parlò Mimmo Jodice, e il nerd dello scatto è bello e sistemato. Cinquant’anni di carriera raccontati in una serata di inizio estate alla Triennale di Milano, partendo dall’esperienza come docente all’accademia d’arte di Napoli e arrivando al più recente progetto su Le città sublimi, scorci inediti di paesaggi urbani partiti da Montreal – 48mila visitatori in quattro mesi, bei numeri – e ora in giro per il mondo. Un racconto senza fronzoli, appassionato e coinvolgente, introdotto da Lella Costa e a fatica indirizzato dal vicedirettore di Grazia Daniele Bresciani. Jodice, davanti alla proiezione delle sue fotografie, si fa incontenibile, procede a ruota libera, forte di una capacità di fascinazione dialettica che è figlia di chi sa con tanta efficacia parlare per immagini.
Ecco quello straordinario atlante della sofferenza raccolto nella Napoli di fine Anni Sessanta, quando riesce ad ottenere un insegnamento in Accademia sfruttando l’escamotage offerto dal corso di scenografia, che finge di aver bisogno di un tecnico per elaborare proiezioni che animino le quinte teatrali. L’aula è gremita, dimostrando come sia ora di cominciare a insegnarla, la fotografia. E poi via di corsa tra vicoli e piazze, seguendo il miraggio di Magritte e Delvaux, che invitano a indovinare paesaggi irreali: porte murate, finestre cieche, inquieti giochi d’ombra, auto protette da teloni che trasformano parcheggi in nuvole fantasmagoriche. La reazione alla “natura morta borghese, da salotto” che si traduce negli scorci rubati alle botteghe di macellaio; la seduzione della classicità e quella del mare, “vissuto però come orizzonte, così come è stato per millenni da parte dei marinai”. I paralleli tra la collezione di Capodimonte e la gente dei vicoli, con i guappi di oggi discendenti delle stesse facce che hanno ispirato Caravaggio e de Ribera; e sempre a proposito di volti quelli del progetto Les yeux du Louvre, che valgono una personale – con proroga, fatto rarissimo – nel museo più visitato al mondo. E pure, tanto per gradire, un cavalierato.

Francesco Sala

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Francesco Sala

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