“Il Teatro Valle? Non basta tenerlo aperto e farci Pirandello”. Gian Maria Tosatti rilancia sul futuro dell’occupazione

Il tema è pressante, e la situazione politico-finanziaria generale certamente non contribuisce a distendere gli animi. Per cui è bastato che Artribune “rimettesse mano” alla questione dell’occupazione del Teatro Valle ed ai possibili scenari futuri, perché ripartisse il dibattito, malgrado la pigrizia tardo-estiva. E questo è ciò che ci riproponevamo, invitando come sempre i lettori […]

Il tema è pressante, e la situazione politico-finanziaria generale certamente non contribuisce a distendere gli animi. Per cui è bastato che Artribune “rimettesse mano” alla questione dell’occupazione del Teatro Valle ed ai possibili scenari futuri, perché ripartisse il dibattito, malgrado la pigrizia tardo-estiva. E questo è ciò che ci riproponevamo, invitando come sempre i lettori a dire la propria, a suggerire, anche a dissentire.
Ed un contributo lucido e circostanziato ci è giunto addirittura da oltreoceano: da New York, dove Gian Maria Tosatti – che ne è l’autore – si trova per un periodo di residenza. Ve lo proponiamo integralmente, a voi la replica…

Caro direttore

nell’ultimo articolo sul Teatro Valle tu lanci la provocazione, ma ti dai anche la risposta da solo. Dici bene che le occupazioni sono una forzatura fatta al sistema da privati cittadini e vengono fatte proprio perché il sistema dia una risposta alla forzatura, un tipo di risposta che di solito non compare fra le priorità delle istituzioni fintanto che alle vertenze aperte da tempo si cerca di dar voce con metodi ‘ordinari’. L’occupazione effettivamente è una extrema ratio, che porta all’evidenza ciò che per troppo tempo si è voluto mantenere sepolto. Ma che succede quando invece che dare una risposta, le istituzioni, anche dopo essere state di colpo svegliate dallo schiaffo di un intervento ‘extra-ordinario’, tendono solo a ‘normalizzare’ (attenzione non a ‘normare’) la situazione, invece che a risolverla. Lo scrivi tu stesso che le istituzioni coinvolte non hanno mostrato alcun reale sforzo nel comprendere le ragioni della mobilitazione, il senso delle proposte che sono state fatte (anche se in modo un po’ confuso) e gli scenari di possibile evoluzione che dall’assunzione di questi elementi potrebbero crearsi. Attualmente a Ministero e Comune di Roma non interessa minimamente costruire un tavolo di discussione serio per ‘normare’ (attenzione non ‘normalizzare’) un progetto nuovo facendolo passare da esperienza extra-ordinaria a esperimento condiviso sotto l’egida dell’amministrazione. La proposta fatta fin ora, per chiunque conosca un pochino le logiche dei teatri pubblici, specie a Roma, è irricevibile. Lo dico sulla base della mia competenza di critico di teatro per 10 anni in questa città e di specialista proprio in questioni politico-culturali. La gestione del Valle da parte del Teatro di Roma è una proposta velleitaria e mortifera. Attualmente il Teatro di Roma ha la responsabilità della gestione di un numero spropositato di sale, fra quelle regolari (Argentina e India) e i teatri di cintura. Di contro ha un solo direttore, che in primis non è un direttore di teatro, ma è solo un ottimo attore (e qui mi ripeterò, ma credo che su questa nomina ci sia stato un errore di valutazione da parte dell’ex assessore Croppi, al netto delle pressioni politiche contingenti). Attualmente, se il Valle rientrasse dentro questo sistema super ingolfato e abbastanza acefalo, il risultato sarebbe solo quello di ‘tenerlo aperto’. Ora credo però che questa occupazione, con tutte le sue debolezze e contestabilità, ci abbia però dimostrato che il problema dei teatri, specie in una città che ne ha più di 100, non sia quello di tenerli aperti, ma di dargli una visione, di renderli in grado di essere spazi capaci di rispondere ad una società che sta cambiando e affrontando prove difficilissime quotidianamente. Un teatro è da sempre un’assemblea politica della città, lo è fin dai tempi di Atene. E specialmente in tempi di grande disorientamento come questi importante che sia in grado di interpretare con rapidità e agilità i segnali del mondo contemporaneo. Che ce ne faremmo di un Valle aperto, ma con una programmazione amorfa come quella che il Teatro di Roma alle attuali condizioni potrebbe offrire? Alle attuali condizioni il cartellone del Valle, sotto il Teatro di Roma andrebbe solo a compendiare la programmazione delle altre sale venendo riempito con spettacoli meno interessanti di quelli già programmati ad Argentina e India (che si sono mossi in anticipo) e che andrebbero ad intercettare quelle compagnie di giro che a tutt’oggi ancora non hanno trovato uno spazio nella capitale per il 2011-2012 in cui infilare il loro ennesimo Pirandello. Il Valle attraverso questa occupazione ha, invece, chiesto di essere un laboratorio, uno spazio permeabile, capace di sviluppare un rapporto di agile reciprocità con la città. L’occupazione attuale ha mostrato alcune forme possibili che certo devono essere affinate, ma che possono costituire la base di una scommessa da parte del Ministero e delle istituzioni territoriali. Non bisogna ‘normalizzare’ quindi, ma ‘normare’ una situazione nuova. Se questo vuol dire passare necessariamente per una gestione da parte del Teatro di Roma per poter avere comunque la possibilità di uno spazio di manovra è comprensibile, ma allora, ciò deve comportare necessariamente l’immediato cambio statutario utile a consentire che nella galassia del Teatro di Roma la sala del Teatro Valle possa starci come ‘teatro a statuto speciale’ (proprio come il nostro Friuli o la Sicilia) e che abbia dunque un suo direttore artistico specifico del tutto indipendente dal direttore artistico di Argentina e India e una certa garanzia sulla gestione di un proprio budget economico. Anche nella designazione della direzione specifica del Valle oltretutto si potrebbe provare a immaginare un modello che non perda l’idea di collegialità proposta durante l’occupazione e solo la trasformi in modo da essere più efficace e inquadrabile in una prospettiva statutaria (un esempio è il direttorio del Mercadante di Napoli – che lì però ha mostrato alcuni limiti). Questo significherebbe un cambio sostanziale nel quadro organico del teatro, una operazione fallita a Mario Martone che non fu sufficientemente sostenuto dalla politica. Oggi i politici sono altri rispetto ad allora (era il 2000 in piena successione Rutelli-Veltroni) e invece che un solo uomo, a proporre questo cambiamento è una esperienza realizzata da migliaia di persone che sono per definizione esse stesse la polis e dunque la politica. I rappresentanti di queste persone che siedono al Ministero e negli enti territoriali dovrebbero dunque solamente ‘registrare’ l’indicazione popolare e dargli seguito attraverso un saggio castello normativo.
D’altra parte la mossa eclatante gli occupanti l’hanno fatta. Quella delle istituzioni la aspettiamo ancora”.

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