Il soggetto ob-verso. L’editoriale di Marco Senaldi

Una riflessione sulle dinamiche innescate dalla Rete. Luogo in cui prendono forma aspetti e pulsioni quasi ancestrali. Tra il desiderio di osservare e quello di essere visti.

La macchina del senso globale l’ha già triturata, digerita e risputata. Ma la storia di Tiziana Cantone, la ragazza suicidatasi dopo la diffusione in Rete, non autorizzata, dei video in cui si faceva riprendere durante dei rapporti sessuali, ha forse ancora qualcosa da raccontare. Se non altro, questa storia di cronaca dimostra, se ce ne fosse bisogno, che il “perennemente festoso” universo della comunicazione può uccidere. Possiede cioè questo potere sovrano sulla vita delle persone che ne divengono preda: esso può arrivare a esporle in forma tanto radicale da annientarle.
Certo, lo sapevamo da tempo. I casi di cyberbullismo, i suicidi per un sms, per un whatsapp, per una domanda su ask.fm ormai si stanno propagando a grande velocità. Ask ad esempio è balzato alle cronache dopo che la giovane Hannah Smith, 14 anni, si è suicidata per la valanga di commenti offensivi ricevuti; ma questo non ha certo fermato la legione immensa degli iscritti che, nonostante la pubblicità data al caso, e gli inviti partiti persino dal premier britannico Cameron, continua a crescere.

CONTENUTI E FORMA

In questa chiave, è interessante la posizione assunta dalla fondatrice del sito, Ilja Terebin, la quale ha spiegato in un’intervista che “la verità è che i genitori non sanno come i figli socializzano. Pensano che quando vanno a scuola, per esempio, tutto quello che fanno è risolvere i problemi di matematica. Se sapessero ciò di cui i ragazzi in realtà parlano, sarebbero molto più spaventati. Su Ask.fm possono vederlo. Ma certe cose accadono ovunque, sia online che offline”.
La difesa è efficace, ma c’è un punto in cui non funziona. E questo punto è quello in cui fanno acqua in genere le teorie dei media e dei new media, cioè il pensare che il problema siano i contenuti diffusi e non la forma in cui sono replicati e trasmessi.
Certo, se i genitori sapessero cosa si dicono i figli si spaventerebbero – ma non lo sanno, non lo hanno mai saputo e potrebbero anche non saperlo mai. Ma ciò che i social diffondono non è il contenuto, ma la sua ripresa mediale. Persino un video senza alcun contenuto, una volta disperso nella “quadrimensionalià” mediale, per nulla che sia, rischia di diventare un qualcosa.
È qui che rientra in scena il caso Cantone. Dato che non si tratta di un’adolescente, è evidente che i suoi costumi morali sono fuori discussione. La colpa non è quella: alcuni dei video, anzi, sono stati realizzati direttamente da lei. La questione qui è quella della colpevole diffusione di quei video che erano nati per restare privati. E gli inquirenti parlano pertanto di tradimento degli amici coinvolti, e anche di possibile istigazione al suicidio.
Ma questa fredda verità giudiziaria evidentemente non basta. Non può bastare, perché è chiaro che prima di ogni diffusione, per privata, limitata o illimitata che sia, l’oggetto di questa diffusione – testo, foto o video – è già di per sé la testimonianza di come il soggetto contemporaneo sia già strutturalmente irretito nella libido duplicandi, che è la vera “malattia mediale” del nostro tempo. È vero che la diffusione è altra cosa, ma in fondo per cosa è fatto un video o una foto se non con questo, per quanto inconscio, desiderio comunicativo? L’icona che compare accanto all’immagine non è appunto quella del fatidico link?

L’EPOCA DELL’OBVERSIONE

È per questo che, per parlarne, occorre vedere i video di Tiziana. Perché l’esperienza a cui ci sottopongono è in pratica devastante, cioè è etica: se in essi lei sembra quasi tentare di assumere il ruolo di una consenziente geisha del sesso, al tempo stesso – intendo dire: proprio nell’atto stesso in cui guardiamo – siamo perfettamente consapevoli (e lo è chiunque li guardi, anche se mosso dalle più inconfessabili ragioni) sia del fatto che quei video erano realizzati per uno scambio del tutto personale, che non ci includeva come spettatori, sia, soprattutto, del fatto che lei, ora, non c’è più.
Credo che la tragica fine di Tiziana sia un monito soprattutto per chi si occupa criticamente di pornografia e di media, perché dimostra, oltre ogni dubbio e con la forza irremovibile della morte, che un simile tema non è confinabile a un settore espressivo come un altro, e il suo studio non è riducibile a una, per quanto raffinata, analisi “linguistica”.
Inopinatamente, dalle viscere stesse della Rete disincarnata, che promette a tutti una proteiforme metamorfosi dell’io a paragone della quale le centomila facce dell’individuo pirandelliano fanno sorridere – ebbene, proprio da quel fondo riemerge qualcosa di addirittura ancestrale, un incredibile senso di vergogna che ha qualcosa di edenico.
Ma se, nel racconto biblico, la vergogna coglie Adamo ed Eva dopo la cacciata dall’Eden, qui tutto accade simultaneamente: è nello stesso tempo che desideriamo entrare nel paradiso delle immagini e che ci vergogniamo di esservi esposti, è nello stesso momento che vorremmo essere attori della nostra vita e spettatori di quella degli altri.
Ed è in questa bizzarra compresenza che si celebra il mysterium magnum dell’epoca mediale o epoca dell’obversione – un’epoca di cui il minimo che si possa dire è che, in essa, nessuno è al sicuro: soprattutto da se stesso.

Marco Senaldi

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #34

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Marco Senaldi

Marco Senaldi

Marco Senaldi, PhD, filosofo, curatore e teorico d’arte contemporanea, ha insegnato in varie istituzioni accademiche tra cui Università di Milano Bicocca, IULM di Milano, FMAV di Modena. È docente di Teoria e metodo dei Media presso Accademia di Brera, Milano…

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