La storia di Pepe the Frog. Da ranocchia innocente a simbolo nazista. E ci va di mezzo anche Zara

Un fumettista s’inventa un personaggio. Un nazista se ne appropria. Un candidato alla Casa Bianca s’indigna. Un artista lo cita. Qualcuno s’arrabbia e un celebre marchio finisce nella bufera. L’incredibile storia di Pepe the Frog e di una minigonna censurata.

Si chiama Yimeisgreat, al secolo Mario Santiago, madrileno con base a Londra. Di mestiere artista, disegnatore e illustratore, naturalmente portato al gioco della contaminazione. Quest’anno ha disegnato per il colosso spagnolo Zara una capsule collection dedicata al tessuto denim, perfetto per reinterpretare il suo mood ironico, trasgressivo, pop, superflat: gonne, pantaloni, salopette e giubbini, tutti di jeans. E tutti marchiati da un restyling fumettoso, a colpi di smile, scritte (Love/Nope), animali e nuvolette esplosive. E c’era pure una microgonna decorata con due ranocchie buffe: occhiali da sole swag, broncio e attitudine thug life. C’era, perché l’azienda ha dovuto ritirarla in fretta e furia a causa di una polemica esplosa sui social nell’arco di una notte.
A lanciare il sasso era stata la giornalista americana Meagan Fredette, accanitasi proprio contro le rane: “Ma veramente Zara ha deciso di vendere una minigonna con l’immagine di ’Pepe the Frog’?”. Poi spense il pc e si mise a dormire. La mattina dopo trovò l’inferno. L’ombra del messaggio razzista più o meno subliminale si era abbattuta sull’artista, ma soprattutto su una delle più grandi e innovative catene di abbigliamento del mondo: colei che sdoganò la stagione della moda cheap e global, frutto di un processo di ideazione, produzione e distribuzione ultra veloce, con circa 10.000 nuovi prodotti immessi ogni anno sul mercato. Collezioni speciali incluse.

Pepe the Frog come Donald Trump e sulla minigonna Zara

Pepe the Frog come Donald Trump e sulla minigonna Zara

I NAZISTI, LA RANA E LA PSICOSI COLLETTIVA

Ma perché tanto astio? Che colpe aveva Zara? E chi è Pepe the Frog? La rana l’aveva in realtà inventata nel 2005 Mat Furie: era uno dei quattro personaggi antropomorfi del fumetto Boy’s Club, pensati per incarnare quattro diversi aspetti della personalità di Furie. Il comics fu particolarmente fortunato, tanto che le bestioline divennero via via delle web-mascotte. Nel 2008 arrivarono anche i primi meme dedicati a Pepe, descritta dal suo ideatore come “una rana rilassata, che amava mangiare snack, stare al telefono e fumare erba”. Tutto qui. Da allora il successo fu clamoroso, contagioso e internazionale: persino in Cina e in Corea la gente s’invaghiva della rana “chilled-out”, con la sua flemma e i suoi occhi a palla.
La faccenda del razzismo esplose molto dopo, nel settembre 2016, durante l’infuocata campagna elettorale per le presidenziali USA. Fu Hillary Clinton a pubblicare un articolo sul suo blog, puntando il dito contro Pepe The Frog, “un cartoon ben più sinistro di quanto si possa immaginare”.

Pepe the Frog in versione nazi

Pepe the Frog in versione nazi

In sostanza l’associazione di estrema destra “Alt-Right”, che aveva dichiarato la propria preferenza per Donald Trump, si era divertita a trasformare Pepe in una nazi-icona virale, guarnendola di svastiche e altri riferimenti all’antisemitismo e alla supremazia bianca. Tra grafiche, meme, post e video, la cosa si diffuse a macchia d’olio, tanto che l’Anti-Defamation League inserì il povero anfibio nel database dei simboli razzisti, accanto al triangolo del Klu-Klux-Klan, alla stessa svastica e ad altre immagini oscure legate al pregiudizio e all’odio razziale.
Dinanzi al furto d’identità subito dalla sua creatura Furie cercò anche di imbastire una campagna di sensibilizzazione (#savepepe) per liberarla da quell’onta. Ma ormai il danno era fatto. Tanto che, a distanza di tempo, persino una minigonna decorata con quella faccina verde diventa l’incarnazione del male. A prescindere dai fatti, delle intenzioni e dall’origine della storia.
Inutile dire che sia Zara che Yimeisgreat hanno negato qualunque evocazione razzista nella loro capsule collection per teenager. Ma la psicosi collettiva – come spesso accade in tempi di ossessione social – ha avuto la meglio. Il capo censurato e la reputazione di Pepe, definitivamente, andate alle ortiche.

– Helga Marsala

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Helga Marsala

Helga Marsala

Helga Marsala è critica d’arte, giornalista, editorialista culturale e curatrice. Ha innsegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Roma (dove è stata anche responsabile dell’ufficio comunicazione). Collaboratrice da vent’anni anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a…

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