Come sono fatte le serre nel deserto? Il Padiglione Emirati alla Biennale Architettura risponde
Nel “suo” Padiglione degli Emirati Arabi Uniti, la curatrice e architetta Azza Abouam sviluppa una riflessione sul ruolo dell’architettura in una delle sfide cruciali del futuro: la sostenibilità alimentare

Fino al 23 novembre prossimo si volge a Venezia la 19a edizione della Biennale Architettura, cui partecipano anche gli Emirati Arabi Uniti con un Padiglione dedicato al ruolo dell’architettura nello sviluppo della sostenibilità alimentare. L’architetta e studiosa Azza Aboualam, che ne è curatrice, ci spiega la genesi e il significato
Intervista ad Azza Aboualam
Come hai concepito questo progetto? Cosa ti ha spinta a indagare su questo tema?
L’idea del progetto è nata molto semplicemente, durante un pranzo con mia madre. Mi chiede sempre da dove viene la nostra frutta e un giorno, mentre mangiavamo i mirtilli, le ho detto che erano di produzione locale. È rimasta sorpresa. “Non possono spuntare nel deserto”, mi ha detto. “Devono esserci delle serre”. Questo è stato il punto di partenza. Ho iniziato a indagare sul funzionamento delle serre negli Emirati Arabi Uniti, non solo dal punto di vista agricolo, ma anche architettonico. Che aspetto hanno? Come sono costruite per resistere al caldo estremo? Ho scoperto che la maggior parte degli studi sulle serre nel nostro contesto proveniva dall’ingegneria agricola o da coltivatori hobbisti. L’architettura, stranamente, era assente dalla conversazione. Pressure Cooker è emerso da questa assenza: il desiderio di riformulare la serra non solo come strumento funzionale, ma come sistema architettonico plasmato dal contesto. Cosa significherebbe trattarla come una questione di design, che risponde al suo ambiente? Questa curiosità ha portato alla ricerca, al lavoro sul campo e infine allo sviluppo di assemblaggi sperimentali. È iniziato con un piccolo momento domestico, ma ha aperto un’indagine molto più ampia su come l’architettura possa sostenere la produzione alimentare, soprattutto in un periodo di volatilità climatica.

Quali sono i risultati più interessanti della tua ricerca? E cosa invece dovrebbe essere migliorato nel modo in cui l’architettura può aiutare la produzione alimentare?
Uno dei risultati più importanti della ricerca è stato il modo in cui le scelte architettoniche, come la forma del tetto, l’altezza delle pareti, l’orientamento, possono influire direttamente sulle prestazioni delle serre in climi aridi. Per esempio, orientare il lato più lungo della serra in direzione nord-sud aiuta a ridurre il guadagno di calore. Raffreddare una serra, abbiamo scoperto, è molto più difficile che riscaldarla; quindi, abbiamo esaminato come le soluzioni architettoniche potessero mitigare la temperatura in modo naturale, come l’inserimento di strutture parzialmente nel terreno o la progettazione di tetti che favoriscono la circolazione dell’aria. Con Holesum Studio abbiamo sviluppato uno strumento digitale per modellare e testare diverse variabili ed è emerso chiaramente che la serra non è solo una scatola in cui coltivare il cibo. È un sistema reattivo che può essere ottimizzato attraverso la progettazione. Troppo spesso le serre vengono trattate come kit standardizzati, che non rispondono ai loro ambienti specifici. Abbiamo riscontrato un reale potenziale nell’approccio alle serre come assemblaggi modulari adattati al sito e alla coltura, piuttosto che come strutture a taglia unica, soprattutto nei climi in cui i sistemi convenzionali non sono applicabili.
Dal punto di vista tecnico, c’è stata una ricerca in termini di materiali per questi particolari edifici, o in termini di soluzioni per renderli più efficienti?
Sì, anche se non ci siamo concentrati sull’invenzione di nuovi materiali, abbiamo riflettuto molto sulle prestazioni dei materiali esistenti in contesti aridi e su come il loro uso potesse essere ottimizzato dal punto di vista architettonico. Abbiamo scomposto la serra nei suoi componenti elementari, tetto, parete, pavimento, e abbiamo trattato ciascuno di essi come una variabile. Con Holesum Studio abbiamo sviluppato uno strumento di modellazione digitale che ci ha permesso di simulare le prestazioni di diverse configurazioni. L’idea era quella di sperimentare come piccoli cambiamenti di forma, ad esempio la curvatura del tetto o il posizionamento delle bocchette, potessero influenzare le condizioni interne come l’umidità, la temperatura e i livelli di luce. In molti casi, le strategie passive hanno dato risultati migliori del previsto. L’ombreggiatura esterna, ad esempio, è stata più efficace per il raffreddamento rispetto ad alcuni interventi ad alta tecnologia. Questo dimostra che molte delle sfide della progettazione delle serre, soprattutto nei climi caldi, possono essere risolte dal punto di vista architettonico. Non abbiamo cercato di reinventare la serra, ma di riformularla come una struttura che richiede attenzione architettonica e intelligenza contestuale.






Qual è il ruolo delle donne nel nascente processo che lega architettura e produzione alimentare?
Nel contesto degli Emirati Arabi Uniti, le donne hanno spesso svolto ruoli vitali nel sostenere e adattare i sistemi di produzione alimentare, soprattutto in modo informale, intergenerazionale e comunitario. Ciò che mi ha colpito durante il nostro lavoro sul campo è stato quanto di questo lavoro avvenga in silenzio, senza essere necessariamente etichettato come “design” o “architettura”.
Puoi fare qualche esempio?
Posso citare l’esempio di una donna incontrata ad Al Ain, che ha rilevato la fattoria del defunto marito. Attraverso un programma di sovvenzioni per vedove, non solo ha mantenuto la terra, ma l’ha anche ampliata, introducendo serre e coltivando cetrioli con un sistema che ha inventato lei stessa dopo vari tentativi. La sua motivazione non era il profitto. Si trattava di continuare qualcosa di significativo, di mantenere vivo il rapporto con la terra. Un altro esempio è la Dott.ssa Tarifa Alzaabi, Direttrice Generale dell’International Center for Biosaline Agriculture (ICBA) dall’agosto 2022, il cui impegno è dedicato alla promozione dell’agricoltura sostenibile e al miglioramento della sicurezza alimentare, rafforzando l’emancipazione di giovani e donne nel settore agricolo attraverso la formazione, il sostegno all’imprenditorialità e lo sviluppo di soluzioni innovative per l’adattamento ai cambiamenti climatici. E Pressure Cooker cerca di dare spazio e di far luce su questo tipo di conoscenza, sia a livello micro che macro.
Immagini di esportare questa ricerca e questa tecnologia anche in altri Paesi, per aiutare i Paesi più poveri a migliorare la produzione di alimenti a costi accessibili?
La speranza è proprio questa. Sebbene il progetto sia radicato negli Emirati Arabi Uniti, le sue metodologie, in particolare il kit modulare di pezzi e gli strumenti open-source, sono state concepite per essere adattabili. Il cambiamento climatico sta rendendo più diffuse le condizioni di aridità. La domanda diventa quindi: possiamo imparare da chi si è già adattato ad ambienti difficili? Durante la nostra ricerca, ho parlato con persone le cui famiglie hanno praticato l’agricoltura per generazioni, affinando le loro tecniche per decenni. Questo tipo di conoscenza locale e accumulata ha un valore globale. Naturalmente, l’accessibilità è fondamentale. Questi assemblaggi sono pensati per essere a basso costo e facili da costruire. Ma siamo anche cauti: sono necessari più test e più dati. Dobbiamo capire come questi sistemi si comportano nel tempo in ambienti diversi.
Niccolò Lucarelli
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