Biennale di Architettura. Unfolding Pavilion

Fino al 30 maggio, la seconda edizione di “Unfolding Pavilion” apre la porta numero 7 del triplex appartenente al complesso di social housing progettato da Gino Valle, in Giudecca. Il padiglione è curato da Daniel Tudor Munteanu, Sara Favargiotti e Davide Tommaso Ferrando, che abbiamo intervistato.

Da dove nasce l’idea dell’Unfolding Pavilion? Da dove siete partiti e in quale direzione state andando?
La scintilla iniziale è stata nel 2016, quando sono entrato in contatto con Daniel Tudor Munteanu grazie ai nostri reciproci blog. Abbiamo deciso di riversare le nostre ricerche in un padiglione collaterale della 15. Biennale, nell’edificio di Gardella alle Zattere: lo abbiamo affittato tramite Airbnb e trasformato in uno spazio espositivo temporaneo. Più complessa è stata la vicenda di quest’anno. Appena arrivati in questo campiello, due anni fa, ci siamo innamorati di questo luogo e abbiamo iniziato a dialogare con gli abitanti. Poi siamo riusciti a ottenere in comodato d’uso uno degli appartamenti sfitti del Comune di Venezia. Abbiamo scelto questo triplex e lo abbiamo completamente ristrutturato grazie al sostegno della Innsbruck University. E alle nostre energie. L’Unfolding Pavilion è, in questa seconda edizione, l’unione di questo processo e di Little Italy [progetto di ricerca a cura di Davide Tommaso Ferrando e Sara Favargiotti, N.d.R.], che intende dare una lettura e una mappatura degli studi di architetti che hanno studiato in Italia nati negli Anni Ottanta.

Little Italy è un nome di stampo anagrafico o a una volontà di contrapposizione alla Bigness?
Per noi Little Italy è una modalità per parlare di una generazione che si sta spendendo in modo trasversale, sia per le discipline delle quali si occupa sia per le dinamiche che ha vissuto. Tre transizioni hanno impattato sulla sua formazione: quella geografica, quella mediatica e quella economica, dal momento che è una generazione entrata nel mondo del lavoro proprio nell’apice della crisi e nel successivo periodo di stallo. Questo ha costretto a reinventarsi in modo più flessibile. Gli altri riferimenti di Little Italy sono lo stereotipo, anche ironico, di un’Italia miniaturizzata e riprodotta all’estero, e lo stereotipo che in Italia non si faccia più architettura. Invece, cercando di creare una rete, di costruire delle relazioni (che forse sono la parte più interessante dell’installazione) e di mettere in contatto le persone, vediamo che non è proprio così.

Gino Valle, Complesso residenziale alla Giudecca, Venezia, 1984-86. Photo © ZA2 (Emiliano Zandri, Lorenzo Zandri)

Gino Valle, Complesso residenziale alla Giudecca, Venezia, 1984-86. Photo © ZA2 (Emiliano Zandri, Lorenzo Zandri)

Con che procedimento avete selezionato gli architetti in mostra?
Abbiamo inviato una mail a ottanta persone spiegando loro che volevamo far emergere le caratteristiche delle nostra generazione e cercavamo dei suggerimenti per arricchire la nostra indagine. Così i nomi delle persone coinvolte sono arrivati a 120. A seconda della pertinenza e di quello che ci sembrava più interessante, abbiamo operato una selezione e soprattutto iniziato a comporre una rete, che per noi è un passaggio fondamentale. Little Italy è un progetto in evoluzione sia dal punto di vista dell’indagine sia dal punto di vista della divulgazione. Adesso ci piacerebbe farlo partire da qui, dalla sua prima casa, e proseguire un dialogo itinerante in altre città.

Nonostante la ricerca sia ancora in divenire, se doveste definire adesso, con una parola, questa generazione di architetti nati negli Anni Ottanta, quale scegliereste?
Nessuna, non vogliamo farlo perché non stiamo cercando di definire l’identità della nostra generazione. L’identità per noi è una questione merceologica, di brand e non ci interessa. Noi stiamo investigando e mettendo in relazione. Poi i dati che otteniamo li rendiamo comprensibili e ne facciamo oggetto di discussione. Le nostre identità sono troppo differenti e sfaccettate. Per questo i questionari che abbiamo inviato per raccogliere i dati della ricerca non erano indirizzati agli studi, ma ai singoli architetti che li compongono.

E gli studi che avete contattato lavorano?
Sì, ma molti lavorano gratis. Cioè, molti lavorano per altri studi e poi hanno il proprio. Per ora, lo studio professionale è una realtà consolidata ancora per pochi di loro. Per noi non è necessariamente un fatto negativo che ci sia una larga fetta di lavoro non pagato, perché a nostro avviso è giusto avere del tempo da poter dedicare a un progetto che è solo tuo. Per noi è un dato sensibile e ci interessa molto: accostata a un’attività che ti permette di vivere, una quota di lavoro non pagato ti dà libertà.

Gino Valle, Complesso residenziale alla Giudecca, Venezia, 1984-86. Photo © Sissi Cesira Roselli

Gino Valle, Complesso residenziale alla Giudecca, Venezia, 1984-86. Photo © Sissi Cesira Roselli

Dopo questi mesi intensi che avete trascorso qui in Giudecca, quando vi chiuderete alle spalle quella porta, cosa vi rimarrà in mano di questa esperienza?
Dis-allestiremo definitivamente quando il comodato d’uso che ci ha dato il Comune si concluderà, a fine luglio, in concomitanza con la festa del Redentore. Intanto per noi è valsa la pena realizzare questo progetto. È stato bello vedere la casa che prendeva forma e si riattivava, interagire con gli abitanti e vedere come via via la dimensione sociale del progetto si arricchiva.

Che rapporti stringete con i luoghi nei quali arrivate? Come vi rapportate da curatori con autori come Gardella o Gino Valle?
Per noi è fondamentale entrare in contatto con gli abitanti, qui per esempio si lamentano tutti di questa tipologia verticale, amata dagli architetti e che rende invece difficile, soprattutto per una cittadinanza di una certa età, vivere su più livelli. L’architettura è complessa, ha tante dimensioni diverse a seconda di dove la guardi. Questo edificio per noi riassume tutte queste complessità, dalle soluzioni architettoniche alla vita quotidiana di chi lo abita. Poi ci parla dei già noti problemi abitativi di Venezia che qui vengono a galla. È un progetto fortemente politico.

E la generazione di Little Italy è politica?
È molto attiva a riaccendere un dibattito non solo politico ma anche culturale. La passione è quella che per noi porta al raggiungimento di obiettivi, anche al di fuori del regolare impiego. Leggiamo una grande voglia di risvegliare un pensiero e a nostro avviso Little Italy è una delle occasioni per poter innescare questa dinamica. Tra l’altro questo edificio è stato costruito con una legge ad hoc che permetteva al Comune di espropriare terreni privati per costruire edifici popolari per sfollati e sfrattati. Anche questo edificio è della generazione Little Italy degli Anni Ottanta, siamo tutti tra coetanei!

L’appartamento ristrutturato grazie all’operazione attivata dall’Unfolding Pavilion resterà al Comune di Venezia e probabilmente da settembre potrà accogliere una famiglia che ne avrà necessità. Questa sicuramente è una delle eredità più importanti che il Padiglione lascia alla città.
Guardarsi allo specchio e parlare dei propri coetanei, quindi di se stessi, non è mai facile, ma un assaggio della corposa ricerca iniziata da Little Italy fornisce alcune risposte e, soprattutto, aiuta a mettere in luce delle domande. Forse questa generazione potrebbe fare un atto di coraggio e assumersi la responsabilità di autodefinire le proprie capacità per metterle sempre più in pratica nel mondo reale? Un lavoro non retribuito, sul lungo termine, si può ancora chiamare lavoro o è altro, dal momento che non contribuisce a costruire la propria autonomia? E se l’architettura fosse un progetto di chiarezza?

Sissi Cesira Rosselli

www.unfoldingpavilion.com

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Sissi Cesira Roselli

Sissi Cesira Roselli

Dottore di ricerca, fotografa e architetto, dopo la laurea ha ottenuto una borsa di studio per il Master in Photography and Visual Design allo Spazio Forma di Milano e alla Nuova Accademia di Belle Arti, successivamente ha conseguito il dottorato…

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