Biennale di Architettura 2018. Riflessioni sul limbo space

Curata da Aaron Betsky e organizzata da Image, la nuova edizione dei Greenhouse Talks, in programma il 25 maggio al Caffè InParadiso di Venezia, proporrà una conversazione con ospiti di rilievo, scelti per la loro capacità di osservare e interpretare criticamente il “limbo space”. A introdurlo è lo stesso presidente della Scuola di Architettura di Taliesin.

Negli spazi dove si aspetta, ci si trattiene o dove semplicemente si perde tempo, si dissolvono i vincoli e le strutture della buona architettura. Nelle sale d’attesa degli aeroporti, nei luoghi della burocrazia governativa o negli studi medici, nei luoghi dove fuggiamo per fare poco o niente, nei bozzoli che creiamo utilizzando le più moderne tecnologie o antiche tecniche di meditazione per ritrovare noi stessi, i confini si dissolvono. Trascorriamo una parte sempre maggiore del nostro tempo in questi spazi. Sono il purgatorio tra l’inferno della realtà quotidiana e il paradiso infinito dello spazio sociale virtuale ‒ o viceversa. Qual è l’architettura di questi spazi non esattamente liberi, e come dovrebbe essere progettato ciò che si intende evanescente? Che cosa ci dicono questi spazi sul futuro dell’architettura?
A prima vista, non molto. Sono spazi con poca gerarchia o messa a fuoco. Spesso non hanno confini, in quanto si trovano a metà strada tra un corridoio e una stanza. Riempiti di plastica e altri materiali artificiali, non rispondono al corpo né durante il lavoro né in riposo, ma al corpo sul bordo della sedia. Sono luoghi di ansia anziché di affermazione.
Eppure, non hanno questi spazi una strana bellezza? Non c’è qualcosa che ha la qualità del non-proprio, il quasi, l’uno e l’altro, che li rende pieni di possibilità? Finora, la storia dell’architettura è stata legata alla progettazione di spazi che hanno uno scopo. Gli edifici sono fortezze e palazzi, teatri o musei. Gli architetti progettano le stanze in modo da poter dormire, mangiare o lavorare. La struttura di tali spazi, così come i loro materiali e le loro proporzioni, per non parlare di come vi si entra, da dove proviene la luce, o quali accessori hanno, è definito da tali usi. Inoltre, essi sono per definizione limitati.
Certo, ci sono sempre stati luoghi a metà tra una cosa e l’altra. Alcuni degli spazi che amiamo di più sono i portici e le verande, così come le anticamere dove spesso il lavoro già comincia e dove l’architettura, per presentarsi e per descrivere la propria funzione, si mostra al meglio. Tra interno ed esterno, tra una cosa e l’altra, tali spazi sono pieni di ombre sia reali che fenomeniche. Qui non si è abbastanza nel mondo e non abbastanza a casa, ma forse ci si trova esposti a delle possibilità. Si aspetta una connessione, per il futuro, mentre si abita in un rifugio parziale.

Diller Scofidio + Renfro Institute of Contemporary Art, Boston, 2006. Photo Iwan Baan

Diller Scofidio + Renfro Institute of Contemporary Art, Boston, 2006. Photo Iwan Baan

RIMANERE A METÀ

Negli ultimi decenni, tuttavia, questi spazi a metà sono diventati qualcosa di diverso. Le radici del limbo space si trovano nelle sale d’attesa che accompagnarono lo sviluppo dei mezzi di trasporto pubblico, e nei luoghi sospesi dove si attende che un burocrate ci veda e ci fornisca un modulo. Si sono formati negli spazi pubblici e semi-pubblici intorno ai negozi, dove ci si incontrava per prendere un caffè, in attesa che accadesse qualcosa o che passasse qualcuno. Questi spazi erano diversi dai foyer dei teatri, per esempio, o dagli spazi tiepidi e vaporosi delle terme romane, dove si aspettava, ma con un chiaro scopo sociale e corporale. Nel nuovo limbo space è sufficiente aspettare.
In quanto tale, il limbo space è il preciso equivalente delle bolle traslucide che portiamo con noi stessi. Non abitiamo poi tanto spazi pubblici o privati, ma al contrario rimaniamo a metà, collegati a esperienze condivise come la musica, o chiacchierando a distanza con le nostre reti di amici sui social media. In effetti una parte sempre più grande del nostro tempo viene consumata in uno stato di semi-distrazione e di sconnessa connessione. Questa architettura, resa possibile dalla tecnologia eterea, è finora sfuggita all’attenzione e alla capacità di classificazione degli architetti.

Labics, Città del Sole, Roma, 2007 16. Photo Marco Cappelletti

Labics, Città del Sole, Roma, 2007 16. Photo Marco Cappelletti

LA PROSSIMA FRONTIERA DELL’ARCHITETTURA

La riflessione sul limbo space offre quindi una duplice opportunità: da un lato, suggerisce di guardare con molta attenzione agli spazi fisici in cui trascorriamo sempre più tempo, ma che nel complesso sono terribili; dall’altro, ci dice che dovremmo guardare a tali spazi come a prototipi per la prossima frontiera della ricerca architettonica, al di là dei confini della loro collocazione, della loro funzione, della loro socialità o della loro struttura fisica.
Possiamo vedere il limbo space come l’assenza di finalità che le nostre nuove forme di socialità richiedono. Possiamo essere disponibili e appartati allo stesso tempo, collegati in un (o nel) momento. I limbo space sono allo stesso tempo troppo reali e del tutto irreali. Essi possono permettersi molte possibilità, anche se prosciugano il tempo e lo spazio dalle loro definizioni. Può l’architettura avvicinarsi abbastanza al limbo?

Aaron Betsky

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Aaron Betsky

Aaron Betsky

Aaron Betsky è Presidente della School of Architecture di Taliesin. Critico di arte, architettura e design, è autore di oltre una dozzina di libri su queste materie, incluso un volume di prossima pubblicazione sul modernismo in architettura e nel design.…

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