Vent’anni di architettura: intervista a Massimo Alvisi e Junko Kirimoto

Un dialogo con gli architetti Massimo Alvisi e Junko Kirimoto, che dopo aver tagliato il traguardo del ventennale di attività con una monografia si apprestano a inaugurare una serie di nuovi interventi tra Firenze, Ferrara e Roma. Senza dimenticare la rigenerazione urbana

È nell’assenza di uno stile unico, immediatamente riconoscibile, che va individuato uno degli aspetti chiave dello studio di architettura, urbanistica e design fondato nel 2002 da Massimo Alvisi e Junko Kirimoto. A ribadire la distanza che separa i due architetti, insieme nella professione e nella vita, dai vincoli imposti dall’agire con modalità formali ed espressive sempre simili, indipendentemente dalla latitudine e dal programma funzionale, sono del resto le pagine della monografia Alvisi Kirimoto. Storia, Natura, Lavoro. Pubblicato da The Plan Editions (con un’introduzione di Philippe Jodido) e recentemente presentato a Firenze e Milano, l’agile volume passa in rassegna la composita produzione del duo, dimostrandone tutta l’attitudine a misurarsi con una gamma di opere diverse per scala e tipologia di intervento. Emerge, soprattutto, la coerenza metodologica che da sempre li accompagna, permettendogli di lavorare su prospettive multiple, a cavallo tra Europa, Asia e Stati Uniti. Dallo stabilimento industriale Medlac Pharma (2011) a Hanoi, in Vietnam, alla pluripremiata Cantina Podernuovo (2013) di Palazzone, in Toscana, passando per gli studi televisivi romani di RaiNews24 (2022) e per il successo dei recenti allestimenti, Alvisi e Kirimoto non hanno mai smesso di prediligere il dialogo e la restituzione del pensiero attraverso testi e maquette. Per loro il controllo spaziale è un processo che prende avvio dalla manipolazione dei fogli di carta (The Hands Work). Passo dopo passo si traduce in un iter daal quale nascono edifici capaci di accogliere lo scorrere dei giorni e degli anni: piuttosto che essere concepito come una categoria temuta, e quindi ostacolato, il tempo lascia il segno del suo inevitabile passaggio sulla pelle dei loro edifici, grazie a materiali e finiture che non lo respingono. Il 2024 dello studio Alvisi Kirimoto si preannuncia come un (altro) anno significativo. A scandirlo, tra i vari appuntamenti, saranno l’imminente apertura dell’ABF Educational Center nell’ospedale pediatrico Meyer di Firenze (un nuovo centro didattico e laboratoriale ideato e promosso dalla Andrea Bocelli Foundation—Ente Filantropico), la chiusura dei lavori dell’asilo nido, centro civico, biblioteca e parco a Grottaperfetta, atteso da tempo nella periferia sud di Roma e, sul fronte culturale, il completamento dello Spazio Michelangelo Antonioni al Padiglione di Arte Contemporanea, nel centro storico di Ferrara.

Alvisi Kirimoto, Uffici Direzionali privati, Chicago. Photo ©Nic Lehoux
Alvisi Kirimoto, Uffici Direzionali privati, Chicago. Photo ©Nic Lehoux

Storia, Natura, Lavoro: intervista agli architetti Massimo Alvisi e Junko Kirimoto

Leggendo il libro emerge la centralità della scrittura nel vostro metodo di lavoro. Da dove nasce questa propensione all’uso della parola prima del disegno?
Junko Kirimoto:
 Per noi la prima cosa importante non è il disegno: è il pensiero. Il progetto di architettura nasce dall’esigenza del cliente: si comincia con un colloquio, quindi si passa al sopralluogo. Così capiamo tutte le necessità e la natura del luogo scelto.
Massimo Alvisi:
 Avendo due culture, estrazioni ed esperienze completamente diverse, tra noi si deve instaurare la prima forma di dialogo. Siamo abituati a confrontarci su ogni questione, insieme. Dialogare poi con tutti è veramente il nostro metodo: facciamo così da sempre e trasferiamo questo approccio ai nostri collaboratori. Rispetto alla mia formazione, questa pratica deriva dalla mia esperienza in Germania, che è stata molto strutturata dal punto di vista filosofico. Ci piace moltissimo parlare con il cliente, capire come vivrà quella casa oppure come un’intera comunità reagirà a un progetto.
JK: 
Poi, più che schizzare, il passo successivo al dialogo è costruire dei modelli. Soprattutto piccoli modelli di carta.

Nella monografica, c’è un indice visivo dei progetti realizzato proprio con modelli di un unico materiale. È un’immagine efficace. Fa capire sia la centralità della manualità nella vostra pratica che l’eterogeneità della vostra produzione. Esiste, però, una dimensione architettonica che sentite più affine?
MA:
 Non direi. Quando sono andato via da Renzo Piano, e Junko da Fuksas, abbiamo ricominciato tutto da capo. Piano, in particolare, quando gli abbiamo comunicato che avremmo aperto il nostro studio, ci ha dato un suggerimento che abbiamo seguito, ovvero quello di partire da zero. Il che vuol dire se, per ipotesi, una zia ci avesse chiesto di disegnare la carta da parati, avremmo dovuto farla, riuscendoci nel miglior modo possibile. Perché l’importante è sempre come lavori.

È stato facile mettersi in proprio, avendo già all’attivo esperienze significative?
MA:
 Dopo aver seguito progetti come il NEMO di Amsterdam o l’Auditorium di Roma, è quasi impossibile rifare subito opere importanti come quelle citate. Ma neppure un’ipotetica carta da parati è ciò che ci si aspetta, in realtà. Ci sono stati anche momenti complessi all’inizio, ma quell’indicazione abbiamo continuato a portarla con noi. Il senso profondo era quello di avere i piedi ben ancorati al suolo, perché altrimenti ci si perde. Credo che ci caratterizzi ancora. Insieme alla cura maniacale del dettaglio e al desiderio di disegnare quasi tutto (clienti permettendo).

E cos’è successo vent’anni fa, dopo Piano e Fuksas?
MA: 
Siamo davvero ripartiti da zero. Abbiamo puntato su Roma, investendo nel nostro ufficio tutto quanto avevamo messo da parte. Abbiamo avuto la fortuna di cominciare con un bellissimo lavoro: un complesso industriale. È stata un’esperienza importante, totalizzante.

Alvisi Kirimoto e le sfide della rigenerazione urbana

Citavate l’Auditorium. Nel vostro futuro potrebbe esserci proprio il suo rinnovamento. Il 2023 si è chiuso con la notizia del master plan del Parco della Musica, disegnato da voi e da RPWB.
MA:
 È stato chiesto all’architetto Piano di portare avanti un progetto di riqualificazione e di completamento di alcuni parti del complesso; Renzo ci ha chiesto di collaborare. È un intervento interessante, di tipo paesaggistico; riguarda le parti esterne e pubbliche del sito: la relazione con il quartiere Flaminio, il rapporto con i Parioli, la rigenerazione del parco. È tutto da sviluppare, ma ha un suo fulcro nel cosiddetto “sagrato”, ovvero lo spazio di fronte all’auditorium stesso, dove ci sono i portici: è da lì che vorremmo iniziare ad ampliare lo spazio pubblico del sito.

Intervenire in un luogo che è già stato oggetto di un pregresso lavoro permette di analizzarne criticità e punti di forza con il gusto spirito?
MA:
 Personalmente ho un rapporto un po’ complesso con l’Auditorium. È un luogo che esercita una carica emotiva straordinaria su di me. Ma di contro non riesco a non vedere le cose che non funzionano: anzi, le vedo tutte. Ci vado spessissimo, ma non è sempre facile. 

Odi et amo, insomma. Tornando al libro: avete adottato tre vocaboli, indicando per ciascun progetto trattato il “peso” di quel termine nell’edificio stesso. Sono vocaboli che appartengono ormai al vostro DNA o immaginate per il prossimo ventennio un vocabolario nuovo?
JK:
 I primi vent’anni sono stati coerentemente nel segno di quelle tre parole: Storia, Natura, Lavoro. Ma il modo di progettare evolve. Cambia anche il modo di vivere: ci saranno quindi anche nuovi temi. 

Cosa dobbiamo aspettarci dopo lo studio di prefattibilità per il restauro e la rigenerazione urbana dell’area ex-Macrico di Caserta, presentato qualche mese fa?
MA:
 Caserta attende questo progetto da decenni. Non è semplicemente un master plan: unisce un’idea di città nuova, quindi la trasformazione di un tessuto urbano che oggi è completamente perso, con la volontà di rigenerare un sito archeologico abbandonato e di recuperare il patrimonio industriale dismesso. E poi ci sono ulteriori temi, a partire dalla necessità di creare un “elemento speculare” alla Reggia di Caserta, che è sì un grande attrattore, ma catalizza su di sé tutto il flusso.

Alvisi Kirimoto, mostra di Emilio Vedova a Palazzo Reale, Milano. photo ©Marco Cappelletti
Alvisi Kirimoto, mostra di Emilio Vedova a Palazzo Reale, Milano. photo ©Marco Cappelletti

Stiamo parlando di un’area, in stato di abbandono, di oltre 324mila mq. Cosa farne?
MA:
 Potrebbe fare da “contraltare” alla Reggia, con una vocazione fortemente educativa. Visito la Reggia e scopro com’è avere in un unico sito un giardino all’italiana, uno all’inglese e una parte di coltivazione, mentre nell’ex Macrico posso sperimentare, ovvero posso imparare a fare: l’arte non verrebbe così solo vissuta o “percepita”, ma anche approfondita e prodotta, attraverso la formazione. È un piano di interventi di grande complessità, che oltre alla ristrutturazione degli edifici esistenti prevede la realizzazione di cinque nuovi parchi. Si realizzerà nell’arco di decenni. Una lunga maratona.

Guardiamo, intanto, all’orizzonte del 2024: quali cantiere concluderete?
MA:
 Abbiamo il progetto per il Meyer, a Firenze; poi ci sarà il progetto dello Spazio Antonioni a Ferrara, dove stiamo facendo sia il recupero che l’allestimento museale. Quindi il centro civico e l’asilo a Roma, a Grottaperfetta. In Toscana stanno partendo altri progetti, che chiuderemo nell’arco di un anno. Come quelli degli ultimi vent’anni, anche questi sono diversi uno dall’altro: non c’è un aspetto in cui riusciamo a riconoscere il “nostro stile”, in modo inequivocabile. Non abbiamo uno stile e non vogliamo averlo. All’università, il mio professore mi ha insegnato che lo stile è “quella cosa che si fa nel momento in cui la fai”. 

Valentina Silvestrini

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Valentina Silvestrini

Valentina Silvestrini

Dal 2016 coordina la sezione architettura di Artribune, piattaforma per la quale scrive da giugno 2012, occupandosi anche della scena culturale fiorentina. È cocuratrice della newsletter "Render". Ha studiato architettura all’Università La Sapienza di Roma, città in cui ha conseguito…

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