“Non siamo in un Paese libero”. La residenza tedesca di Giuseppe Stampone

È il primo italiano a essere ospitato alla Villa Romana di Firenze, sede di una storica residenza artistica tedesca. Abbiamo colto l'occasione per un dialogo a tutto campo sull'arte e il suo sitema con Giuseppe Stampone.

Poco più di un anno fa Giuseppe Stampone (Clusse, 1974) firmava Art Thinking, il manifesto promosso da Arteprima con il quale si invitavano le istituzioni a coinvolgere gli artisti nella messa a punto di soluzioni concrete per affrontare il fatidico momento del post-lockdown. Quel momento sembra essere arrivato, ma nessuna progettualità è stata pensata per il mondo dell’arte e il telefono degli artisti che offrivano di aiutare nella ripartenza non ha mai squillato.

ARTISTI ITALIANI E RESIDENZE STRANIERE IN ITALIA

Stampone è il primo italiano a essere ospitato in questa bellissima residenza tedesca a Firenze. “E forse anche l’ultimo”, chiosa l’artista. “Fino a quest’anno, a Villa Romana le residenze erano finanziate da Deutsche Bank, ora è il Ministero della Cultura tedesco a metterci i soldi, quindi il progetto potrebbe essere indirizzato solo ad artisti tedeschi. Una chiacchierata con Angelika Stepken, la direttrice di Villa Romana, mi conferma tuttavia un entusiasmo e un interesse per gli scenari mediterranei. In ogni caso, è una condizione singolare quella di essere ospitato da un’istituzione straniera che ti supporta e ti finanzia nel tuo stesso Paese, ed è piuttosto esemplificativa della condizione degli artisti in Italia”.
Con grande limpidezza, Stampone ricorda che semplicemente in Italia non esistono residenze dove ti danno 20mila euro per lavorare. “Ora, con la spinta del Covid-19, il MiC ha previsto degli ‘incentivi’, ma in generale viviamo in un Paese dove un giovane artista abitualmente è più facile che debba pagare piuttosto che essere sovvenzionato per una residenza”. E non è una rarità dettata dal Covid, visto che Stampone stesso, solo qualche anno fa, è stato residente anche all’Accademia Americana di Roma.

LA CORNICE DI VILLA ROMANA

Quando incontriamo Stampone, a Villa Roma è in corso la mostra dei borsisti dell’anno 2021 e siamo seduti in una sala refettorio in cui abbiamo consumato una cena austera a una tavolata (con distanziamento) di dodici persone, mentre sullo sfondo corrono le immagini del documentario dell’artista francese Pauline Curnier Jardin (Le Lente Passioni, 2020), che raccoglie stralci video di processioni e manifestazioni di folclore religioso nel Sud Italia.
In questa installazione estemporanea da Ultima Cena nella quale ci troviamo curiosamente coinvolti, è inevitabile chiedersi cosa succeda a Villa Romana. C’è qualcosa di monastico, ma al posto della preghiera c’è l’arte, e pare che ognuno intimamente coltivi la propria personale crescita. I propositi sono molto pratici, invece. L’investimento sul lavoro dell’artista in residenza va infatti oltre al garantirgli uno spazio internazionale di lavoro: sono previste brochure, catalogo delle opere dell’artista, presentazioni e studio visit. Attenzioni che aiutano un artista a fortificare la propria identità.

Villa Romana, Firenze. Lo spazio a vetrate nel giardino © Claudio Nardi Architects

Villa Romana, Firenze. Lo spazio a vetrate nel giardino © Claudio Nardi Architects

LA QUESTIONE DELL’IDENTITÀ

Altrove, in Olanda o in Belgio ad esempio ‒ proprio in Belgio, Stampone ha uno studio e una galleria che lo segue ‒, l’artista è riconosciuto economicamente e pubblicamente, mentre in Italia non funziona alla stessa maniera. In materia di tutela del lavoro, agli artisti visivi manca un riconoscimento economico, giuridico, fiscale e previdenziale. “In Italia un artista può vivere solo grazie alle gallerie. Io ne ho una in Belgio e due in Italia”, dice Stampone. “Dopo più di vent’anni, durante i quali ho compiuto un percorso che mi ha permesso di vivere come artista, mi sento un privilegiato. In qualche modo, i collezionisti storici e le gallerie che mi supportano sono parte del problema, lo voglio dire apertamente”.
L’artista affermato, insomma, è colpevole, perché contribuisce ad alimentare un sistema asfittico. Ma un giovane artista cosa può fare? E tuttavia, sono davvero i lavoratori dell’arte a dover sentire il senso di colpa? Questa dinamica può considerarsi una sirena d’allarme di un disinteresse pubblico che delega alla legge del più forte la sopravvivenza di uno dei settori più rappresentativi del Paese Italia.

NODI BUROCRATICI AL PETTINE DELLA PANDEMIA

Ormai più di un anno fa, il Ministro Franceschini diceva che non avrebbe lasciato solo nessuno, sebbene, in una informativa parlamentare, specificasse come per alcune categorie le forme contrattuali fossero ben definite e gli interventi, di conseguenza, di più facile e immediata attuazione. Per altre categorie, invece, le forme contrattuali necessitano di interventi più articolati, come per gli artisti visivi. In questa affermazione non si può a fare a meno di vedere un tentativo – e il rammarico quando questo fallisce – di strizzare gli artisti in parametri già esistenti per altre categorie di lavoratori. Il pericolo più subdolo di questo approccio è la scarsa conoscenza e attenzione alle peculiarità e alle potenzialità del settore, che, se burocraticamente rappresenta un problema, culturalmente e in prospettiva può essere una risorsa.
Ma gli artisti sono davvero così soli? Chi li rappresenta, chi porta la loro voce nelle sedi istituzionali?Se mi chiedi di un sindacato, di un organo che ci rappresenti e parli delle esigenze degli artisti, ti rispondo che prima dobbiamo ritrovare i nostri punti in comune”, dice Stampone. Alla base c’è uno spiccato individualismo e l’illusione di essere unici ed esclusivi; allo stesso tempo, però, questo assunto implica subdolamente l’essere solo. E questo vale anche per gli artisti. Oggi addirittura per Stampone l’artista è obsoleto: “L’artista non si chiama neanche più artista, si chiama creativo. L’artista è stato parte di una comunità in cui si riconosce e che lo riconosce; il creativo è solo.

ARTISTI O CREATIVI? LA FORZA DELLA COMUNITÀ

Enzo Cucchi, Ugo La Pietra: Stampone guarda a loro quando pensa all’artista come personaggio attivo in una comunità, e dice tutto quel cenno della mano che si è lasciato sfuggire e che rimanda alle cose perdute. Si riferisce a quel tempo in cui gli artisti si riconoscevano tra loro e il gallerista andava a bussare alla loro porta, perché incuriosito dal loro pensiero, dalle loro sperimentazioni. “Io sono un artista che ha ottimi rapporti con gli altri artisti, uno che crea relazioni. Marinella Senatore, Luca Pancrazzi, Lorenzo Scotto di Luzio, Enzo Cucchi, Alfredo Pirri, Jota Castro, Gian Maria Tosatti, Marco Neri, Eugenio Tibaldi – con loro e altri abbiamo creato sempre gruppo. Sono il direttore artistico della cooperativa Dolce a Bologna. Una cooperativa che esiste da settant’anni, si occupa di servizi al cittadino, di immigrazione, di microcredito femminile”.
A quanto pare, non è vero che la solitudine sia ormai una condizione pacificata nell’indole dell’artista, l’occhio puntato solo sul proprio lavoro e sulla propria crescita. “Ci scambiamo le opere, ci confrontiamo, ci segnaliamo, parliamo di artisti che ci piacciono. Stefano Arienti, Vedovamazzei, Francesco Arena, sono tutti artisti amici che sento spessissimo, artisti che durante questo periodo ho sentito carichi, perché abbiamo sperimentato, lavorato e abbiamo fatto delle opere nuove”.

Alexis Peskine, A Piantare un Chiodo. Villa Romana, Firenze 2021

Alexis Peskine, A Piantare un Chiodo. Villa Romana, Firenze 2021

LAVORO ARTISTICO E PANDEMIA

Insomma, la pandemia non ha segnato un periodo tanto diverso rispetto al solito dal punto di vista della responsabilità, del sostentamento, del riconoscimento e dell’attenzione pubblica al lavoro degli artisti. Con il tono sarcastico e la piega autoironica e amichevolmente sprezzante che ormai ha preso la nostra conversazione, Giuseppe Stampone fa notare quanto gli artisti siano finalmente riusciti, in questo periodo di emergenza generale, a focalizzarsi sul proprio lavoro, “oltre le fiere, le cene, il chiacchiericcio. Durante il Covid-19 i miei collezionisti hanno continuato ad acquistarmi, perché sono i collezionisti che mi acquistano da 25 anni. Io facevo venti fiere l’anno, un’energia incredibile spesa a creare opere commerciali, quando ora ho potuto sperimentare. È una possibilità”. È rimasto in Abruzzo sotto il suo Gran Sasso a lavorare senza distrazione. “Il mondo dell’arte è rumoroso, distrae, tanto”.
È chiaro che, come nelle altre fasce della società, c’è un enorme divario tra chi una carriera ce l’aveva già e quelli per cui il percorso era ancora tutto da scrivere. Così per gli artisti strutturati non è cambiato poi tanto, se non quella parte di spettacolarizzazione dell’arte. Ma come può crescere il settore dell’arte in maniera organica con la crescita di un Paese? Bisogna rassegnarsi definitivamente al pensiero che l’istituzione pubblica riconosca il settore privato dell’arte (e della cultura in generale) come un settore di mercato, ma non come una risorsa di formazione, come una delle voci interne della crescita socio-economica nazionale? Non rischiamo di perdere il futuro della cultura?

MUSEI, GALLERIE E CONFLITTO DI INTERESSI

Basta uscire un po’ dai nostri confini (Stampone cita la sua esperienza di Bruxelles e New York) per trovare una situazione e una lettura dell’identità dell’artista del tutto diversa. “In Italia per fare una mostra in un museo bisogna che l’artista, o la galleria che lo supporta, paghi. La mostra la paga la galleria. Come lo chiamiamo questo? Conflitto di interesse?”. Moltissimi musei non hanno i soldi per sostenere una mostra di artisti di media carriera o di giovani artisti. E di artisti senza galleria, quanti ne sono stai esposti in Italia in un museo? E le gallerie, scelgono liberamente? “No”, incalza Stampone, “perché gli artisti in molte gallerie sono spinti dai curatori-mercanti che hanno i magazzini pieni di opere di questo e quell’artista, comprate a pochi soldi. Il curatore oggi rischia di essere il maggiordomo dell’arte”. E le fondazioni? “Sono tante in Italia, come le gallerie che aprono associazioni per curare mostre pubbliche, magari in realtà di provincia o comunque fuori dal loro ambiente ordinario. Il pubblico in Italia è finanziato dal privato. La libertà di scelta è data dalla libertà dal conflitto di interesse. Il museo non ha soldi pubblici e allora cosa fa? Chiama la galleria per fare una mostra, che permette alla galleria di far crescere il valore delle opere dei propri artisti e di vendere. Non è la caccia alle streghe quello che davvero interessa, ma porre l’accento sulla domanda: perché i musei non hanno i soldi per sostenere una mostra? Se il museo non ha fondi sufficienti è ricattato dal privato. I musei dovrebbero essere liberi nelle loro acquisizioni. Il pubblico ti rende libero, ma evidentemente noi non siamo in un Paese libero”.

EFFETTI COLLATERALI SUL SISTEMA DELL’ARTE

Queste falle nel sistema, come se non bastasse, limitano anche la rilevanza all’estero dell’arte italiana. Perché questi meccanismi di sopravvivenza non garantiscono la stessa risonanza fuori dai confini di quegli ambienti dove un’istituzione artistica può camminare con le sue gambe, anzi, la fatica negli investimenti, nella scoperta e nella ricerca limita la crescita, lasciandoci nel provincialismo che conosciamo e in cui siamo spessissimo inquadrati e ingabbiati. Questo sistema niente affatto lineare e che procede per uno strano tipo di mutuo soccorso tra il privato e il pubblico ha l’effetto collaterale devastante di creare collezionisti ignoranti, che non possono che affidarsi ai trend del momento.
Prima di riprendere il treno e lasciare Villa Romana faccio due passi nell’outdoor dell’accademia e incontro lo spazio a vetrate costruito al limite del giardino. Qui è allestita la mostra A Piantare un Chiodo di Alexis Peskine. Volti di uomini e donne neri, disegnati da chiodi appuntati su tavole dorate, scrutano e interrogano i passanti, e anche io mi interrogo sull’ultima domanda posta a Stampone nella lunga chiacchierata del giorno scorso: speranze per il futuro? “Noi siamo in cancrena e andrà sempre peggio finché non si creerà un altro sistema dell’arte. Il Covid-19 ha posto l’accento sulle falle del sistema dell’arte e per un momento ha messo in ginocchio la macchina dell’arte contemporanea in Italia, ma forse siamo tutti troppo compromessi per riemergere in un modo davvero nuovo e pulito, e lo dico senza fare il perbenista e il santerellino”. Un suggerimento, il suo, che comprova, per l’ennesima volta e dall’interno, che è proprio arrivato il momento in cui ogni maglia del tessuto dell’arte deve guardare fuori dal proprio orticello e riscoprirsi parte di una società, tassello di un’identità artistica che, prima di essere una attività economica privata, è una generatrice di senso pubblico.

– Ofelia Sisca

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