Disegnare la Patagonia. Intervista a Lorenzo Mattotti

Protagonista della mostra allestita presso Mutty, a Castiglione delle Stiviere, Lorenzo Mattotti racconta la sua passione per il disegno e anche quella musica, due ambiti a suo avviso strettamente legati.

Un viaggio in Patagonia, sul filo delle emozioni raccolte da Lorenzo Mattotti (Brescia, 1954), impresse a carboncino su carta nepalese, nel carnet di viaggio pubblicato per la prima volta in versione integrale da Lazy Dog. Questo è il fulcro della mostra curata da Melania Gazzotti, visitabile fino al 28 novembre presso gli spazi di Mutty a Castiglione delle Stiviere, Mantova.
Mattotti aveva curato in precedenza il volume illustrato Vietnam, per la collana di travel book di Louis Vuitton, nel 2014. In questa sede propone disegni realizzati nel 2003, durante un viaggio in auto verso la Terra del Fuoco, compiuto insieme all’amico e scrittore argentino Jorge Zentner.

L’INTERVISTA A LORENZO MATTOTTI

Qualche anno fa ha esposto alcune immagini della Patagonia all’interno della mostra Sconfini a Villa Manin, a Udine. Come è nata questa mostra?
Non avevo mai pubblicato interamente questo quaderno, che era uscito parzialmente in qualche catalogo, quando avevo fatto una mostra con Cristina Taverna. Così l’ho proposto. Per me è un grande piacere pubblicarlo tutto intero, in più abbiamo aggiunto l’altro quaderno di viaggio con gli appunti e i disegni più veloci. I ragazzi di Mutty sono molto motivati, propongono cose raffinate. Lo spazio si presta. La mostra è minimalista. Non ci sono ingrandimenti, bensì serigrafie di queste immagini. Penso lo spazio si adatti bene, è piuttosto intimo, coerente. La curatrice, Melania Gazzotti, si è occupata anche della mostra a Marsiglia sull’invasione degli orsi in Sicilia. È brava, ha organizzato la mostra a New York sulle copertine del New Yorker. Quando si mette in testa qualcosa, lei riesce a farla. Non è facile trovare questi spazi, organizzare una mostra, realizzare un libro e catalogo.

Lorenzo Mattotti, Patagonia, 2020

Lorenzo Mattotti, Patagonia, 2020

LA PATAGONIA E IL SILENZIO

La Patagonia è, prima di tutto, un luogo della mente?
Quando sei in quei grandi spazi, l’emozione nasce da ciò che vedi a 360 gradi. Il paesaggio non è una linea d’orizzonte, è tutt’intorno, ed è estremamente melodico. Passando ore in macchina, viaggiando per chilometri, l’occhio incontra continuamente delle linee che si alzano, si abbassano, si approfondiscono, si allontanano, fino ad arrivare a un grande canyon, che disegna un’altezza. Ho cercato di riassumere in questi disegni quelle sensazioni di profondità, quelle linee che costruiscono lo spazio. Provare a fissarle sulla carta, era questo il tentativo. Una specie di solfeggio, di musica, di melodia degli occhi, attraverso questo territorio dove non ci sono rotture improvvise, come ci possono essere in un contesto urbano.

La sensazione è che abbia “musicato il silenzio”, la quiete dell’animo, che non è statica, ma un’emozione e una conquista in costante movimento.
Le linee dello spazio sono molto musicali per me. Quando si guarda un grande paesaggio, lo spazio non è silenzio, bensì armonia con i suoi gialli, verdi, blu, grigi. È una musica astratta, è chiaro che sia dentro la testa, ma è un silenzio melodico e molto armonioso.

Ha un approccio sinestetico all’illustrazione?
Credo di sì. La musica mi ha sempre affascinato per le immagini che mi ha evocato. A volte, esagerando, ho detto che la musica mi ha aperto più prospettive nel disegno che non la storia dell’arte. Ascoltando certe musiche e composizioni, è come se si creassero nuovi spazi, colori e forme, nel mio immaginario. Questo mi influenza molto mentre lavoro e credo vi sia sempre un tentativo di musicalità all’interno dei miei disegni. Ho un rapporto con la musica molto intenso.
Lo scorso anno ho collaborato con l’orchestra filarmonica di Parigi. Abbiamo messo in scena Hansel e Gretel, con la musica di Engelbert Humperdinck. Durante lo spettacolo, per il quale avevamo creato un testo parlato, abbiamo proiettato alcuni miei disegni. In alcuni momenti io disegnavo dal vero, dipingendo le immagini su un grande schermo all’interno del teatro. È stato molto emozionante, un’esperienza forte.

Lorenzo Mattotti, Patagonia, 2020

Lorenzo Mattotti, Patagonia, 2020

LORENZO MATTOTTI E DINO BUZZATI

Parlando del suo recente cartone animato La famosa invasione degli orsi, tratto dal romanzo omonimo di Dino Buzzati, qual è il suo rapporto con l’illustrazione e con l’animazione?
È un salto dimensionale enorme, non facile da condensare in poche parole. Per cinque anni ho lavorato solo a quello. È un progetto che ti assorbe completamente. Io avevo deciso di seguirlo quotidianamente, ad esempio, insieme a una équipe di collaboratori e tecnici. Si è trattato di una grande sfida, una scommessa. Ho voluto tener duro fino alla fine. Ha rivoluzionato il mio rapporto con il lavoro e il disegno, a tratti positivamente. Il cinema e il cartone animato sono un mondo molto diverso dal mio lavoro in studio, dalle mie ricerche, in uno spazio intimo. Nel cinema sei costantemente circondato da persone, hai un budget importante, devi sempre coordinare, cercare di spiegare quello che hai nella testa. È un progetto complicato e devi reggere. Il desiderio era di creare una grossa produzione.

E per quanto riguarda il rapporto con Buzzati?
Buzzati è parte della mia cultura grafica, mi ha influenzato tantissimo fin da quando ero ragazzo. Mi ha sempre accompagnato. Il suo mistero mi ha ispirato in diversi momenti, ad esempio, nel mio primo cortometraggio, che era più “buzzatiano” dell’invasione degli orsi. Tutto in bianco e nero, misterioso, e legato al coccodrillo di Mantova. Quindi fin dall’inizio avevo deciso di partire dai suoi disegni, per creare il mondo del film. I particolari che lui metteva nei suoi disegni noi li abbiamo spettacolarizzati. Le silhouette e tutto ciò che potevo cogliere, dai personaggi alle situazioni che lui descriveva nel libro, sono stati inseriti. Vi sono altri riferimenti a sue immagini e scritti tratti da altri libri. Buzzati è lì, respira nel film, insieme al mio lavoro. L’estetica del film in conclusione è stata il risultato dell’apporto di diversi talenti. Chiaramente, io tenevo il timone.

Deve essere stata un’esperienza entusiasmante.
Ci sono stati momenti di grande entusiasmo, quando i primi personaggi iniziavano a muoversi, le prime scenografie e compositi si animano e iniziano ad avere una propria vita. In questo lavoro si procede a tappe, è estremamente metodico. Alcuni momenti ti caricano di un entusiasmo che devi trattenere per andare avanti. È un progetto estremamente lungo. Il rapporto con l’équipe è stato molto bello: quando hai intorno persone che disegnano tutto il giorno, con il loro computer, ti sembra di essere in un convento amanuense. Tu controlli e c’è un certo piacere in tutto questo.

Elena Arzani

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Elena Arzani

Elena Arzani

Elena Arzani, art director e fotografa, Masters of Arts, Central St. Martin’s di Londra. Ventennale esperienza professionale nei settori della moda, pubblicità ed editoria dell’arte contemporanea e musica. Vive a Milano e Londra.

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