Diventare world maker. Al Cottino Social Impact Campus di Torino

Parte il Cottino Social Impact Campus dedicato alla formazione di professionisti che sappiano produrre intenzionalmente impatto sociale positivo.

Il 2020 sarà l’anno del social impact: la strategia decennale dell’Unione Europea “Europa 2020” arriva al traguardo e impone un consuntivo dei risultati di crescita inclusiva e sostenibile raggiunti; il Global Steering Group for Impact Investment ‒ organizzazione globale indipendente che unisce i leader della finanza, degli affari e della filantropia ‒ ha fissato il termine di fine anno per raggiungere quota un trilione di dollari in  investimenti a impatto sociale. E per una volta l’Italia è pioniera: inizieranno a febbraio, a Torino, le lezioni del Cottino Social Impact Campus, primo centro in Europa dedicato all’impact education. Ideato e promosso dalla Fondazione Cottino, il Campus è realizzato in collaborazione strategica con Politecnico di Torino, SocialFare ed ESCP Europe in un ecosistema che include altri partner quali Opera Torinese del Murialdo, EVPA e Torino Social Impact.
Ma di che parliamo? Lo abbiamo chiesto a Laura Orestano, CEO del Campus.

Cos’è il Cottino Social Impact Campus?
Noi pensiamo che la creazione di una cultura per l’impatto sociale sia una sfida da cogliere attraverso un’offerta formativa nuova. Il Campus risponde a questa esigenza e offre percorsi, moduli, approfondimenti tematici, ricerca ed esposizione a pionieri ed esperti di frontiera proprio sul tema dell’impatto sociale. Sarà aperto a tutti e rivolto a individui e organizzazioni interessate ad approfondire metodologia, strumenti e linguaggi per sviluppare impatto sociale positivo e sostenibilità integrale all’interno delle proprie organizzazioni o come azione imprenditoriale o professionale.

Chi, più di tutti e prima di tutti, è chiamato ad acquisire questa competenza?
Direi che le nuove generazioni possono essere quelle in grado di accelerare questa spinta, lo hanno dimostrato anche in questi ultimi mesi con i Fridays for Future. Ma non bastano, perché le organizzazioni non sono costituite soltanto da giovani, sono fatte da persone che hanno costruito il proprio successo in paradigmi tradizionali e forse superati. È necessario uno sforzo collettivo di organizzazioni, pubblica amministrazione e soggetti filantropici a esporsi a nuova conoscenza, a non aver paura di attivare una leva trasformativa prima di tutto al loro interno per essere poi coerenti rispetto alle azioni che potranno uscire verso l’esterno. C’è bisogno di coerenza e non solo di spot pubblicitari.

Quali sono i contenuti formativi offerti ai vostri studenti?
Prima di tutto una precisazione: noi non li chiamiamo studenti ma world maker, intendendo coloro che hanno una visione del mondo e, per costruirla, si attrezzano di nuova conoscenza.
Il Campus avrà nella sua faculty pensatori, practitioner, esperti di frontiera, anche accademici, che stanno cercando di andare oltre il seminato e che hanno sperimentato sul campo i risultati della propria ricerca. Con uno dei massimi esperti a livello mondiale, il prof. Guido Palazzo dell’Università di Losanna, affronteremo il tema dell’etica sistemica: dimostrerà come nelle grandi organizzazioni anche le persone che si riconoscono in una scala di valori finiscono per prendere decisione non etiche perché l’organizzazione frammenta la catena di responsabilità. Poi avremo moduli sullo storytelling for change, perché una nuova narrativa è necessaria per far sì che i contenuti trasformativi possano ingaggiare e raccontare in modo diverso i risultati generati. Ci sarà chi accompagnerà i progetti verso il loro potenziale sviluppo imprenditoriale, ci saranno moduli sull’impact investing, quindi sulla nuova finanza. Non da ultimo, ci sarà anche un’azione politica di open innovation di city making, cioè come le città devono attrezzarsi per diventare città responsabili e città a impatto sociale.

Come si diventa un impact leader?
Nell’offerta formativa del Campus avremo esperti che lavoreranno sulla leadership, che nelle organizzazioni non può più essere verticale e apicale, ma deve diventare orizzontale e condivisa. Noi sappiamo che lo scenario del lavoro del futuro richiederà la capacità non solo di poter agire o interagire con sistemi complessi, con macchine e tecnologie sempre più raffinate, ma anche la capacità di sviluppare quelle skill che non sono proprie delle macchine: il pensiero critico, la capacità di lavorare in squadra e quella di formare persone che possano entrare a lavorare nei team, la capacità di condividere le responsabilità, la capacità di sviluppare scenari complessi. Tutte queste abilità sono necessarie per la costruzione dei nuovi leader, chiamati ad affrontare sfide che saranno sempre più complesse. Si tratta di leader che dovranno saper convergere, dovranno saper lavorare per comunione di intenti e non solo in termini di competizione.

Laura Orestano, CEO del Cottino Social Impact Campus

Laura Orestano, CEO del Cottino Social Impact Campus

Perché in questi anni si è diffusa la necessità di agire pensando all’impatto sociale delle azioni e delle scelte fatte?
Si tratta di un insieme di cause: c’è la crisi del modello economico che ha contraddistinto la totalità delle economie occidentali; c’è il risultato critico di un approccio fideistico alla tecnologia come manna risolutiva di tutti i mali; c’è l’evidenza comportamentale delle nuove generazioni, che mettono sempre più al centro del proprio modello di vita ‒ ancora prima del modello di lavoro o delle scelte professionali ‒ il purpose, cioè il senso. Recenti ricerche dimostrano che le giovani generazioni sono disponibili ad accettare uno stipendio meno importante a fronte però di un senso preponderante all’interno della loro vita professionale e lavorativa.

Che impatto ha avuto e ha la crisi ambientale nella diffusione dell’attenzione alla sostenibilità sociale?
La transizione energetica e la crisi ambientale sono al centro della progettazione e delle sfide che tutti noi siamo chiamati ad affrontare, in termini di sostenibilità integrale. Io dico sempre che non esiste sostenibilità sociale senza sostenibilità ambientale, così come non esiste sostenibilità ambientale senza persone e comunità che vivano bene e in modo dignitoso. Il discorso è assolutamente integrato e integrale: l’accelerazione dei cambiamenti climatici e le catastrofi cui ora stiamo assistendo, dall’Australia all’Amazzonia, sono, è vero, in gran parte riconducibili a delle trasformazioni climatiche accelerate dall’industria di vecchio stampo, ma sono anche il frutto di scelte economiche e politiche che hanno messo per decenni le comunità e le persone all’ultimo posto della filiera del valore. Questo deve e può cambiare solo se le comunità sapranno progettare e se le imprese si metteranno al fianco delle comunità. Dobbiamo uscire da questa impasse e dobbiamo uscirne tramite nuova conoscenza; il Campus è lo spazio nel quale generare e condividere questa nuova conoscenza, perché solo attraverso di essa, redistribuita, si potrà creare quella massa critica che porterà al cambiamento culturale.

C’è una nazione in Europa o nel mondo che sta facendo da apripista su questo tema?
Dal mio osservatorio non c’è una nazione che eccella nella totalità di sviluppo di questo modello, però ci sono diverse nazioni che stanno ponendo il tema dell’impatto sociale all’interno delle loro politiche e stanno considerando l’innovazione sociale come una delle potenziali politiche industriali e di sviluppo del proprio Paese. Questo avviene sicuramente nelle economie emergenti: nei Paesi del Sud-Est asiatico c’è un focus molto importante sulle comunità, sulla co-progettazione, sullo sviluppo di soluzioni innovative a sfide sociali contemporanee, sull’impact investing. Lo stesso sta avvenendo pure nelle economie anglosassoni, anche se a volte solo per stemperare le catastrofi create dall’eccessivo liberismo economico. Direi che l’Europa e il Mediterraneo in particolare costituiscono un bacino importantissimo per sviluppare quello che Thomas Mann definiva un Umanesimo militante, che prevede la centralità dell’individuo e delle comunità nell’equilibrio tra sostenibilità sociale, ambientale ed economica.

Quindi stiamo lavorando bene?
Molto bene, la nuova governance dell’UE ha a cuore la missione sociale europea e ha predisposto tanti strumenti per rintracciare e sostenere il valore sociale come valore per lo sviluppo. Tutti i fondi che saranno messi a disposizione nella prossima programmazione per sostenere l’impatto sociale e l’innovazione sociale sono un’ampia dimostrazione che la politica europea si sta orientando sempre di più verso una politica di sostenibilità integrale.

A proposito di Europa, come si inscrivono il Campus e la sua attività nel quadro di Europa 2020?
Il Campus è un’infrastruttura abilitante, cioè un luogo di conoscenza che abilita soggetti pubblici, privati, profit e non profit, singoli e comunità a concorrere al disegno di Europa 2020.

Come convincere gli scettici che il valore sociale non è antitetico al valore economico?
Farei l’esempio banalissimo di Facebook e dei grandi successi della Silicon Valley, partiti sì da un know how tecnologico, ma prima ancora osservando dei comportamenti, relazioni e interazioni nelle quali veniva prodotto del valore sociale e relazionale. Possiamo logicamente criticare il tipo di valore relazionale che Facebook ha capitalizzato, però agli scettici dico “guardate da un valore di quel tipo quale valore economico si è sprigionato”. Posso portare anche esempi più vicini: esistono start-up a impatto sociale che rispondendo a delle esigenze sociali hanno generato valore economico per le persone che usufruiscono del servizio, per loro hanno creato nuovi posti di lavoro e innovazione rilevante. Ancora un esempio: Larry Fink, presidente del più grande fondo speculativo di investimento mondiale ‒ BlackRock ‒ ha inviato nel 2019 una lettera a tutti coloro che interagiscono con il fondo dicendo “portatemi cose nelle quali investire dove non ci sia solo profitto ma ci sia anche il purpose”.
Questo per dire che esiste uno spettro ampio nel quale scegliere la propria azione militante nell’ottica di sostenibilità sociale e integrata, sta a noi decidere in quale zona del campo giocare.

Un esempio concreto di sostenibilità sociale riuscita?
Penso per esempio ai modelli delle fondazioni di comunità, che mettono insieme un partenariato ibrido per raccogliere risorse rispetto a un progetto che è stato definito rilevante dalla comunità stessa. Penso anche alle comunità che recuperano degli spazi dismessi e che in questi spazi accendono luoghi di progettazione, di condivisione, di produzione. Abbiamo esempi, in Italia: i centri per l’innovazione sociale ‒ io ne dirigo uno; gli acceleratori a impatto sociale, che cercano di metter insieme know how per accelerare imprese a impatto sociale; penso alle “Case del Quartiere” di Torino, dei veri e propri hub di convergenza sociale.

Qual è la frontiera dell’impatto sociale?
Il social impact mira in primis a creare coesione sociale e sviluppo sostenibile. Il cambiamento culturale è il risultato che arriverà solo dopo che avremo creato coesione sociale e sviluppo sostenibile.

E lei, come CEO del Campus, quali obiettivi ha?
Vorrei creare un luogo nel quale attrarre l’internazionalità, ma dove la matrice mediterranea possa essere una bussola importante di orientamento e di decodifica di ciò che sperimentalmente viene fatto a livello internazionale. Io penso che ci sia un modello mediterraneo europeo che possa giocare un proprio ruolo non solo nel conoscere ma anche nel fare, quindi questo è il mio obiettivo: lavorare per un modello mediterraneo ed europeo.

Giulia Carcani

www.cottinosocialimpactcampus.org

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Giulia Carcani

Giulia Carcani

Una laurea in Scienze della Comunicazione all’Università La Sapienza di Roma e molte esperienze tra ufficio stampa e agenzie di comunicazione. Nel 2008 conquista il tesserino da giornalista professionista e intraprende la strada delle collaborazioni da freelance: firma per Vogue,…

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