Il MoMA raccontato dal suo direttore. Intervista a Glenn D. Lowry

Fino al 2025 il MoMA sarà diretto da Glenn D. Lowry. In Italia, in occasione della Milano Arch Week, il direttore anticipa il futuro del museo più importante del mondo, che dal prossimo 21 ottobre potrà contare anche sull’edificio progettato da Diller Scofidio + Renfro.

Si chiama Glenn D. Lowry, è nato a New York nel 1954 ed è direttore del MoMA dal 1995. Un caso molto particolare il suo, perché nel 2018, anno in cui era prevista la conclusione della sua carriera nel museo, all’età di 64 anni Lowry ha ottenuto il rinnovo del mandato per altri 7 anni: resterà fino al 2025. Un’estensione temporale tanto lunga da renderlo il direttore che per più tempo è stato a servizio dell’istituto, ma anche un’eccezione, dato che, secondo la politica interna del MoMA, senior curator e manager dovrebbero ritirarsi una volta compiuti i 65 anni. A rendere speciale la sua direzione non è soltanto questo burocratico strappo alla regola. La sua incredibile policy in qualità di manager del museo ha portato all’avvio del progetto PS1 e a due importanti ampliamenti del Museum of Modern Art: il primo, nel 2004, per mano dell’architetto giapponese Yoshio Taniguchi; il secondo, firmato Diller Scofidio + Renfro, inaugurerà il prossimo 21 ottobre, in seguito alla chiusura forzata del MoMA per quattro mesi (dal 15 giugno fino alla data di riapertura).

LO SVILUPPO ARCHITETTONICO DEL MOMA

La stratificazione architettonica del MoMA è il risultato di una storia che va avanti da ormai 90 anni. È il 7 novembre 1929, infatti, quando le Ladies capitanate da Abby Aldrich Rockfeller aprono i battenti in uno spazio modesto al dodicesimo piano del Manhattan’s Heckscher Building. Da lì passeranno 10 anni prima che il MoMA si instauri dove si trova oggi, in un appezzamento di proprietà della famiglia Rockefeller, con un progetto realizzato dagli architetti Philip L. Goodwin ed Edward Durell Stone. Poi un susseguirsi di felici interventi: prima nel 1964 Philip Johnson disegna l’Abby Aldrich Rockefeller Sculpture Garden, quindi è la volta di Cesar Pelli, nel 1983, con la torre residenziale adiacente al MoMA.
A concludere ‒ temporaneamente ‒ il museo anni dopo è il giapponese Yoshio Taniguchi, con un ampliamento pari a 58mila mq: “MoMA deve mostrare l’arte in modo tradizionale, ma anche educare il pubblico. Così ho cercato di enfatizzare queste due importanti missioni disegnando le gallerie e gli spazi per la didattica in vetro, che si guardano a vicenda

Milano Arch Week 2019. Glenn D. Lowry, Paola Antonelli e Stefano Boeri © Triennale Milano photo Gianluca Di Ioia

Milano Arch Week 2019. Glenn D. Lowry, Paola Antonelli e Stefano Boeri © Triennale Milano photo Gianluca Di Ioia

IL NUOVO AMPLIAMENTO

Dunque, due grandi ampliamenti in meno di 15 anni con Glenn D. Lowry, che il primo giugno 2017 ha rivelato sul sito l’ultimo, opera di Diller Scofidio + Renfro in collaborazione con Gensler. Un progetto ambizioso e non poco discusso, perché per realizzarlo è stato necessario demolire il limitrofo Folk Art Museum, acquistato dal MoMA nel 2011, che si riteneva sarebbe stato integrato nell’ampliamento. Tuttavia, come dichiarato dagli stessi progettisti, non poteva “essere preservato senza ricostruire la maggior parte dei suoi interni, indebolendone di conseguenza l’integrità”. Con questo ampliamento ‒ che coinvolge anche tre piani bassi della torre di Jean Nouvel anch’essa in costruzione sopra al lotto ‒ il MoMA otterrà un incremento del 30%. Disporrà dello spazio necessario per esporre la collezione d’arte ruotando, ogni sei mesi, le opere nelle varie gallerie “così che la mostra permanente possa suscitare nel visitatore lo stesso interesse delle mostre temporanee”, ha affermato Lowry. Al centro del museo The Studio, uno spazio per programmi ed esibizioni dal vivo. Posta al secondo piano dell’edificio, la “Piattaforma innovativa” sarà dedicata al settore education. Al piano terra ci saranno le nuove galleries, aperte alla città di Manhattan e completamente gratuite. Anche questa una grande rivoluzione per un museo che, forte del suo insediamento super urbano, vuole essere uno strumento sociale e un simbolo per la collettività. Il piano prevede un ridisegno della lobby e “un nuovo ingresso a misura d’uomo, più piacevole per il visitatore che si sente accolto nel museo; un nuovo bar, il ristorante, lo shop che viene spostato al -1, creando uno spazio in doppia altezza con l’atrio d’ingresso e nuovi sistemi di distribuzione verticale”.

LE MOSTRE INAUGURALI

Per la riapertura autunnale le quattro mostre inaugurali annunciate traggono origine dalla collezione permanente: Sur moderno: Journeys of Abstraction The Patricia Phelps de Cisneros, sull’arte del Sud America; Member: Pope. L, 1978-2001, dedicata all’artista interdisciplinare Pope. L; Betye Saar: The Legends of Black Girls Window, che esplora i legami tra la scultura autobiografica di Saar Black Girl’s Window del 1696 e le sue prime rare stampe degli Anni Sessanta; infine Studio Museum at MoMa, The Elaine Dannheisser Project Series, che nasce dalla collaborazione tra The Studio Museum di Harlem, il MoMA e MoMA PS1.

Glenn D. Lowry. Photo credit Peter Ross

Glenn D. Lowry. Photo credit Peter Ross

L’INTERVISTA

Riguardo al nuovo edificio di Diller Scofidio + Renfro, forse la novità più grande sono proprio le ground-floor galleries. Aperte al pubblico e gratuite, definiranno un rapporto diretto tra il museo e la città. Quali sono le aspettative per il futuro MoMA con questa nuova impostazione?
Siamo molti eccitati all’idea di avere queste gallerie al piano terra: diventeranno la prima cosa che il visitatore vede quando si trova di fronte al MoMA. Crediamo davvero che così facendo l’arte diventi qualcosa di pubblico, o per lo meno diamo un forte messaggio dalla strada riguardo a quello che accade dentro. È un esperimento, dobbiamo vedere come e se funziona, ma io credo che rinforzi la filosofia del 1929, quando è stato fondato il Museum of Modern Art: ovvero quella di essere una urban institution, un’istituzione urbana (nonostante sia privato, è fortemente legato alla città). Il MoMA è una realtà cittadina quanto una realtà artistica, è “of and about the city” quanto “of and about art”. Deve animare, attivare, dare energia alla città. Penso quindi che queste nuove gallerie creeranno una sorta di osmosi diretta con la strada (e quindi con la città).

Dunque non ci sarà diaframma tra museo e città?
Il museo diventa un’estensione della città, e viceversa. Credo che ogni istituzione culturale debba essere fortemente connessa con il luogo in cui si trova, non si può considerare separatamente. Il suo essere così centrale influisce molto. Non è come la Triennale, per esempio, ai confini di un parco o comunque in una posizione di ampio respiro rispetto al tessuto urbano. Il MoMA è radicalmente insediato a Manhattan, tra le sue strade e gli skylines, per questo il piano terra assume un ruolo così importante.

E questo lo differenzia dagli altri musei?
Certo. Se pensiamo al Metropolitan, o comunque ai musei tradizionali americani del XIX secolo, sono tutti impostati in altezza: il museo è organizzato in un percorso in salita, distante da quanto accade sulla strada. E invece il MoMA è sempre stato on the ground ‒ al piano terra, sulla strada ‒, non c’è transizione qui: arrivi dalla strada ed entri. Ugualmente, anche se il MoMA è a sud di Central Park, non ha l’impostazione classica di molti musei americani all’interno dei parchi, come dicevo prima. Penso che questo contatto con la città sia una delle cose più genuine che possiamo offrire al nostro pubblico.

Ci sono novità nel sistema di esposizione?
Con la riapertura prevista per il 21 ottobre 2019 introdurremo un nuovo sistema di rotazione delle collezioni permanenti ‒ ogni sei-nove mesi ‒, così da non essere un museo fossile, bensì un continuo “work in progress”. Non saremo mai finiti, ma sempre in evoluzione.

Sono previste novità anche nell’uso di questi nuovi spazi “con una forte attenzione agli aspetti interdisciplinari”?
La realtà di oggi, quella del settore curatoriale, è molto interessata a questa idea di interconnessione tra le varie discipline. Ciò porta ovviamente a ripensare i sistemi di curatela, il modo in cui si espone l’arte e il modo in cui viene organizzata una mostra: l’obiettivo è trovare soluzioni per far convivere armoniosamente le diverse discipline. Avremo modo di sperimentare varie forme di interazione tra scultura, fotografia, media, performance, architettura, design.

Come in Broken Nature
Broken Nature viene dal nostro museo. Paola Antonelli ha curato la mostra a Milano, ma molte parti vengono proprio dal MoMA, alcune in una forma più estesa, alcune esattamente come si trovano qui. Quindi ci sono delle special commitions in Broken Nature che sono proprio il risultato di questa collaborazione. Sono profondamente grato a Paola per il lavoro che ha fatto e a Stefano Boeri per questa collaborazione tra le due istituzioni.

Milano Arch Week 2019. Glenn D. Lowry, Paola Antonelli e Stefano Boeri © Triennale Milano photo Gianluca Di Ioia

Milano Arch Week 2019. Glenn D. Lowry, Paola Antonelli e Stefano Boeri © Triennale Milano photo Gianluca Di Ioia

Se Broken Nature è stato un passo importante per la vostra ricerca curatoriale, dobbiamo aspettarci una riapertura con mostre che riguardano i grandi e delicati tempi contemporanei?
Sì. Faremo una mostra sul razzismo in architettura, ovvero come le barriere architettoniche diventino il simbolo dell’odio razziale: l’elemento simbolico di questa forma di pensiero è sicuramente il muro. Per noi è molto importante parlare di come lo spazio sia reso “razzista” dall’architettura: le città sono divise dall’idea di razza, l’idea di zoning nelle diverse parti della città… Sarà nel 2020.

Prevedete di collaborare ancora con la Triennale o si è trattato di un’occasione circoscritta all’esperienza con Paola Antonelli come curatrice?
Abbiamo avuto una lunga partnership con il MAXXI di Roma. Abbiamo condiviso il progetto YAP Young Architects Program, lavorando insieme per dieci anni. Mi piacerebbe fare altro con Stefano Boeri; se succedesse ne sarei molto felice. Ma credo debba essere una cosa molto naturale e spontanea, basata sull’idea di condividere interessi comuni. Penso che questo possa accadere perché il MoMA e la Triennale condividono una grande missione nel mondo del design, esplicitata in Broken Nature.

Cambierete orari e giorni di apertura?
Sì, cambieranno anche gli orari: apriremo infatti un’ora prima, alle 10 di mattina, e chiuderemo alle 21 ogni primo giovedì del mese.

Domanda finale. Cosa significa, per te, essere direttore del MoMA?
Sono molto fortunato a essere in questa posizione. È un viaggio culturale e intellettuale che intraprendo ogni giorno, è come se non avessi mai smesso di studiare: io imparo ogni giorno. Mi sento ancora a scuola. Ho avuto la fortuna di incontrare persone incredibili, ogni giorno imparo sulla disciplina che ho davvero a cuore: l’arte e l’arte come strumento per migliorare il mondo.

Bianca Felicori

www.moma.org/

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Bianca Felicori

Bianca Felicori

Bianca Felicori è architetto junior e studentessa del corso di Laurea Magistrale in Architettura e Disegno Urbano presso il Politecnico di Milano. Inizia il suo percorso nella redazione di Domus insieme all’ex direttore Nicola Di Battista, correlatore della sua tesi…

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