25mila euro. La cifra che misura la crisi dei teatri

25mila euro: è il tetto massimo di contributo ai teatri italiani nel quadro di aiuti post-Coronavirus. Tanto? Poco? Forse il problema è invece di ordine strutturale.

Lo spettacolo dal vivo è un argomento difficile, ancor più quando si parla di teatro. Per farlo in modo serio, bisognerebbe affrontare elementi culturali, di management, di politica culturale, di finanza pubblica, di incentivi diretti (il FUS) e indiretti (la defiscalizzazione), collegarlo con quanto parallelamente fatto per il settore audiovisivo, studiare l’intera catena di produzione del valore dello spettacolo teatrale, internalizzando anche quelle esternalità positive che il teatro genera sul territorio e che in genere non vengono introdotte all’interno dei documenti contabili (leggi conti correnti) di chi fa il teatro.

QUATTRO ASSIOMI SUL TEATRO IN ITALIA

Ovviamente non si può affrontare tutto questo universo in un articolo di questo genere, e ciò rende necessario procedere per “assiomi”, vale a dire affermazioni che bisogna assumere come “vere” in quanto evidenti.
Assioma numero 1: il teatro è in crisi.
Assioma numero 2: gli indirizzi di politica culturale espressi dal MiBAC, più che conformarsi in una “linea”, sono il risultato di compromessi tra differenti visioni che da anni si sono avvicendate al Ministero.
Assioma numero 3: il teatro privato, vale a dire l’insieme di operatori che conducono, in una logica di mercato attività legate al teatro, gioca un ruolo fondamentale per il nostro tessuto urbano, sia sotto il profilo culturale e sociale, ma anche sotto il profilo economico;
Assioma numero 4: la maggior parte dei teatri privati italiani è il risultato di attività, professionalità e impegno di persone e o famiglie che da anni, se non da decenni, conducono le loro attività;
Dall’assioma numero 4 consegue che, spesso, i gestori dei teatri hanno sviluppato le proprie competenze in un sistema economico-sociale estremamente differente da quello attuale.

CONSIDERAZIONI GENERALI SUL SETTORE TEATRALE

Da queste affermazioni è possibile avere, se non un’immagine precisa dei contorni del fenomeno, almeno uno “schizzo” delle condizioni generali del settore. Quello teatrale è un settore estremamente rilevante, che tuttavia si trova, da anni, in condizioni di tendenziale precarietà.
Questa precarietà non è univoca: se la crisi economica generale del nostro Paese, che va avanti più o meno ininterrottamente da circa quarant’anni, ha eroso le capacità di spesa degli italiani, ha sicuramente influito sulla riduzione delle partecipazioni agli spettacoli teatrali, ma non possiamo certo affermare che sia questa l’unica ragione che porta gli italiani a preferire una passeggiata al centro commerciale piuttosto che assistere a uno spettacolo a teatro.

Da un lato è cambiato il set dei consumi culturali, anche a fronte di una progressiva erosione del tempo libero. Dall’altro i cartelloni teatrali sono spesso obsoleti.

Ci sono teatri che hanno saputo, nel tempo, consolidare il proprio ruolo e che oggi (Covid a parte) rappresentano casi di successo, mentre ce ne sono molti altri che oggi (sempre Covid a parte) non riescono più ad essere quel centro cittadino di cultura e di spettacolo in grado di riunire persone con differenti “vite” (non ha più così tanto senso parlare di estrazione sociale).
I motivi sono tantissimi: da un lato è cambiato il set dei consumi culturali, anche a fronte di una progressiva erosione del tempo libero. Dall’altro i cartelloni teatrali sono spesso obsoleti e, quando non lo sono del tutto, presentano indizi di schizofrenia, che sono il riflesso di “mancate” decisioni di management: puntare sugli abbonati storici del teatro (che spesso presentano età avanzate, come del resto tutta la nostra popolazione) o cercare di puntare ai “giovani”, target invero piuttosto eterogeneo che racchiude soggetti che vanno dai 18 ai 45 anni?

IL CASO DEI TEATRI DI ROMA

Il risultato è un progressivo allontanamento, che porta oggi l’Unione Teatri di Roma a protestare con veemenza contro il MiBAC perché i fondi di emergenza Covid per il teatro sono stati assegnati solo alle sale tra i 300 e i 600 posti.
Ora, chiunque abbia mai avuto a che fare con il teatro dal punto di vista organizzativo, soprattutto nel territorio romano, sa bene che unire i teatri e i gestori di teatri di Roma è un’impresa molto ardua: reticenze, trascorsi, piccole invidie e micro-accuse che solo una grande “motivazione” comune è in grado di mobilitare il sentimento associativo.
Bene, è un dato di fatto, dunque, che tale “motivazione” possa quindi essere misurata in una cifra “comunque non superiore ai 25.000 euro”, un valore davvero irrisorio se si pensa che, con una media di 25 euro a biglietto, una sala da 250 posti incassa (non guadagna, benintesi), in caso di tutto esaurito, una cifra del genere in cinque giorni.

VOGLIAMO UFFICI AL POSTO DEI TEATRI?

È quindi lampante che qualcosa, nel teatro, non va. E certo non possiamo additare tutta la responsabilità al MiBAC (che certo però non è estraneo al concorso di cause) perché si tratta pur sempre di teatri privati, vale a dire di soggetti che operano o dovrebbero operare a condizioni di mercato.
Ed è altrettanto evidente che, in una condizione di scenario come la nostra (Covid a parte), per il teatro privato, ma questo vale per tutto il teatro in Italia, sia necessario avviare delle trasformazioni (se non va, non va, non è che l’anno prossimo andrà meglio).
Atteso che non ha alcun senso parlare di responsabilità, è altrettanto chiaro però che il teatro rappresenta un insieme di valori che non possiamo permetterci di perdere, sia come cittadini, sia come fruitori di teatro, sia come soggetti economici. Assistere alla chiusura di un teatro significa perdere un pezzo di storia di un quartiere o di una città, ma anche trovarsi con un immobile vuoto in uno spazio urbano, spesso centrale, ed è chiaro che, se il teatro non viene rivitalizzato, saranno pochi i pretendenti per quello spazio, che sarà quindi probabilmente destinato ad altri usi, con margini di profitto atteso più elevati.
Abbiamo già imparato, nel corso degli Anni Novanta e Zero, cosa questo significa: si guardino le città statunitensi, che hanno visto trasformare i propri centri cittadini in enormi uffici a cielo aperto, attivi dalle 9 alle 18, per poi svuotarsi nelle ore serali e notturne, con evidente declino delle attività economiche, della qualità della vita, e anche della sicurezza.
È quindi evidente che una soluzione va trovata.

LA QUESTIONE DEL TAX CREDIT

Le proposte di azione riguardano differenti “soggetti”, perché nessuna delle attività possibili, fatta eccezione per l’iniziativa del singolo privato che riesce a costruire un caso di successo, può essere, a livello sistemico, risolutiva.
Iniziamo dunque dal MiBAC, che da anni omette risposte legate all’introduzione del tax credit verso il teatro. Una scelta di politica legittima, che tuttavia va motivata, non lasciata cadere nel nulla. E che, soprattutto, deve essere controbilanciata da un’altra azione politica, o da una dichiarazione esplicita di “non intenzione a procedere”. Il tax credit non è solo un sistema di incentivo fiscale, è un “argomento” che può portare i teatri privati a intessere relazioni con il tessuto imprenditoriale, territoriale ed extraterritoriale, e a creare connessioni per lo sviluppo di servizi ulteriori nati propri dal confronto tra gestori di teatro e imprese.

È legittimo voler preferire altre forme di incentivo seppur indiretto, ma certo la soluzione non arriva lasciando invariate le condizioni.

È legittimo voler preferire altre forme di incentivo seppur indiretto, ma certo la soluzione non arriva lasciando invariate le condizioni, a meno che la soluzione “ben vista” dal ministero sia una “riduzione del numero di attori privati” a vantaggio di “poli teatrali” più ampi. In tal caso, però sarebbe eticamente corretto definire tale politica, così da evitare che soggetti che investono tempo e denaro (molto denaro) vadano verso una conclusione di carriera poco edificante, soprattutto a fronte del grande ruolo che hanno giocato negli ultimi decenni.

TEATRI PICCOLI E AGILI

Passiamo poi alle dimensioni dei teatri: nella società che viviamo, i “conticini” servono a poco. Non è il singolo spettacolo che fa la differenza, sia in termini di risorse che in termini di posizionamento strategico. La differenza la fa il management: bisogna diversificare gli investimenti, creare le condizioni di riduzione del rischio specifico attraverso una politica di diversificazione dei servizi, bisogna segmentare la propria offerta e bisogna raggiungere delle economie di scala anche nei confronti delle compagnie, anche attraverso la definizione di contratti comuni, di ATI tra differenti soggetti, o affini.
Volendo riassumere: o i teatri privati divengono “piccoli e agili” in grado, quindi, di rispondere in modo rapido alle differenti esigenze del mercato, o si uniscono per divenire più grandi, così da raggiungere dimensioni utili per abbassare i costi medi di gestione e avere più potere contrattuale non solo nei riguardi delle compagnie teatrali, ma anche nei riguardi di altri soggetti.

ALTRI CONSIGLI IN ORDINE SPARSO

Ritorniamo poi al MiBAC, ma non sotto il profilo “organizzativo” ma sotto il profilo prettamente culturale: nella nostra cultura diffusa, il teatro ha smesso di essere un punto cardine dell’attività sociale, e questo è sicuramente un impoverimento culturale del nostro Paese. Probabilmente sarebbe il caso di avviare azioni che avvicinino i cittadini al teatro, favorendo l’affermazione del consumo culturale teatrale tra i giovani e i meno giovani come una pratica “ricorrente e abituale”.
E ancora, le compagnie: Massimo Troisi, qualche decennio fa, affermava, “non mi voglio inimicare nessuno perché io lavoro in tutta Italia: già abbiamo il problema della lingua, che ci impedisce di andare all’estero…”. Sarebbe dunque il caso di superare questo limite che blocca, di fatto il mercato al solo mercato italiano, imponendo una struttura dei costi più rigida di quanto potrebbe essere.
Usciamo dai confini degli operatori di settore e guardiamo al mondo della finanza, che può essere molto interessata al teatro, sia quella “piccola” fatta di promotori finanziari che possono trovare nuovi clienti e investitori, sia quella più strutturata, che può essere interessata alle dimensioni immobiliari, e alla capacità di “erogare servizi a un gran numero di utenti.
Guardiamo alla tecnologia, che di certo non può trasformare le modalità fruitive principali del teatro, ma che può rappresentare la costruzione di nuove piattaforme, oltre a quanto già previsto dal nostro Ministero con il cosiddetto “Netflix della cultura”.

CONCLUSIONE

Spirito imprenditoriale, innovazione dei modelli di business, diversificazione delle attività e dei servizi, riduzione dei costi medi di gestione, incremento dei ricavi attraverso servizi a valore aggiunto ancora non identificati, costruzione di partnership con il tessuto imprenditoriale, aggregazione del numero di spettatori e costruzione di un processo attraverso il quale incrementare il “peso” in termini di rappresentatività, nei confronti del Ministero.
E queste sono solo attività propedeutiche.
Che il sipario si apra.

– Stefano Monti

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Stefano Monti

Stefano Monti

Stefano Monti, partner Monti&Taft, è attivo in Italia e all’estero nelle attività di management, advisoring, sviluppo e posizionamento strategico, creazione di business model, consulenza economica e finanziaria, analisi di impatti economici e creazione di network di investimento. Da più di…

Scopri di più