Capitale della Cultura: visione o storytelling?

Un progetto lungo un anno non è sufficiente per avviare dei veri e propri interventi di riqualificazione nella città designata Capitale Italiana della Cultura. Sarebbe necessario un progetto più ampio, con una durata di almeno tre anni. Le riflessioni di Stefano Monti.

Un pensiero a voce alta: le Capitali della Cultura non servono senza investimenti. Senza investimenti, le Capitali della Cultura sono l’immissione di un “mini-bonus” di denaro pubblico che non modifica la struttura reale del territorio. Per far sì che il modello della Capitale Italiana della Cultura funzioni, quella somma dovrebbe avere un valore “simbolico”.
Si tratta, in fondo, di un pensiero ovvio se si considera che il capitale per la Capitale è troppo esiguo per avere impatti significativi: un milione di euro alla città che presenta il miglior dossier di candidatura. Un milione di euro per un progetto che, come recita lo stesso bando, abbia come effetti:
a) il miglioramento dell’offerta culturale, la crescita dell’inclusione sociale e il superamento del cultural divide;
b) il rafforzamento della coesione e dell’inclusione sociali, nonché dello sviluppo della partecipazione pubblica;
c) il rafforzamento degli attrattori culturali per lo sviluppo di flussi turistici, anche in termini di destagionalizzazione delle presenze;
d) l’utilizzo delle nuove tecnologie, anche al fine del maggiore coinvolgimento dei giovani e del potenziamento dell’accessibilità;
e) la promozione dell’innovazione e dell’imprenditorialità nei settori culturali e creativi;
f) il conseguimento di risultati sostenibili nell’ambito dell’innovazione culturale;
g) il perseguimento della sostenibilità così come indicato dall’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile dell’ONU.
Nessuno, nemmeno il Ministero, ritiene che tale somma possa essere significativa. Non è un caso, infatti, che tra i criteri di selezione vengano citati la previsione di forme di cofinanziamento pubblico e privato e l’effetto di “completamento”, inteso quale capacità di favorire la piena realizzazione di progetti già avviati ma non ancora conclusi.
Quest’ultimo punto merita qualche riflessione perché, se in linea di principio si tratta di un criterio di selezione molto importante, dal punto di vista pratico rischia di trasformare la Capitale Italiana della Cultura in una sorta di storytelling della finanza pubblica.

Il dossier di candidatura dovrebbe essere la scelta di un percorso di sviluppo urbano, in cui amministrazione, cittadini e investitori identificano nella cultura e nello sviluppo culturale una direttrice di lavoro per gli anni futuri”.

Proviamo a essere pratici: stiamo parlando di progetti “avviati” e non ancora “conclusi” e sappiamo tutti che, per un progetto degno di nota, i tempi medi di realizzazione sono sicuramente superiori a un anno. Questo significa che quel progetto è stato immaginato, scritto, approvato molto ma molto prima che potesse essere utile alla Capitale Italiana della Cultura. Se tutto va bene, l’Amministrazione inserirà dei progetti che sono in linea con una visione di sviluppo culturale della città. Se va male, invece, il dossier di candidatura sarà un puzzle di progetti che riguardano qualunque settore della gestione urbana.
Certo, concludere i progetti avviati va comunque e sicuramente a beneficio della città, ma non “crea una politica di indirizzo”, non “rappresenta una linea di posizionamento strategico della città all’interno dello scenario nazionale”, soprattutto se, poi, finanziamenti e co-finanziamenti vengono quasi completamente investiti in spesa corrente, vale a dire eventi.
Eventi di inaugurazione, interventi di coesione sociale, programmazione culturale, consulenti, spese di viaggio e di trasferta e qualche manutenzione straordinaria. In pratica la città diventa un palcoscenico in cui va in scena uno spettacolo lungo un anno. Ovvio che tale prospettiva piaccia. Soprattutto sul versante politico. Gli eventi sono, da sempre, il punto di contatto più efficace tra l’Amministrazione e i cittadini. Le nostre città hanno però bisogno di un percorso diverso. Hanno bisogno di assumere una visione strategica che sia in grado di indirizzare le scelte dell’Amministrazione in un progetto di medio periodo.

UN PERCORSO PLURIENNALE

Tale progetto va creato in collaborazione con investimenti privati, sia per la realizzazione di infrastrutture e servizi, sia per la definizione di progetti culturali. Il dossier di candidatura dovrebbe essere la scelta di un percorso di sviluppo urbano, in cui amministrazione, cittadini e investitori identificano nella cultura e nello sviluppo culturale una direttrice di lavoro per gli anni futuri. Dimensioni che sono sicuramente “richieste”, è vero, ma che all’Amministrazione basti un solo anno per definire un progetto pluriennale di sviluppo è poco credibile.
Estendiamo il periodo di valutazione. Facciamo in modo che le Amministrazioni partecipino a una prima selezione progettuale all’anno 0 e che la selezione definitiva avvenga sulla base di “quanto fatto”, e non sulla base di “quanto scritto”: quali rapporti hai attivato con i cittadini? Quali con gli investitori? Quali sono stati i progetti “messi a compimento”? 3 anni di valutazione. Un progetto.
Se invece lo teniamo a un anno, non aspettiamoci altro che una gran bella festa, in cui la città brilla per attrarre turisti e, se va bene, qualche investimento di breve periodo, un intervento di riqualificazione lì, un nuovo hotel là.  Ma, come ogni festa, prepariamoci anche a mettere in ordine dopo.

Stefano Monti

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Stefano Monti

Stefano Monti

Stefano Monti, partner Monti&Taft, è attivo in Italia e all’estero nelle attività di management, advisoring, sviluppo e posizionamento strategico, creazione di business model, consulenza economica e finanziaria, analisi di impatti economici e creazione di network di investimento. Da più di…

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