Quando le fonti ufficiali non bastano. L’analisi di Stefano Monti, a partire dal Rapporto Civita

Lo stato delle Industrie Culturali e Creative e l’analisi del sistema dei Rapporti che ne raccontano attraverso i dati la “salute”, a partire dall’ultimo Rapporto Civita presentato nel 2017, “L'Arte di produrre Arte. Competitività e Innovazione nella Cultura e nel Turismo”, il terzo della serie di Associazione Civita, a cura di Pietro Antonio Valentino ed edito da Marsilio.

Dopo diversi anni dalla sua nascita si può quasi affermare che il comparto delle Industrie Culturali e Creative si stia finalmente affermando come un cluster riconosciuto da tutte le parti sociali. Le sfide da vincere sono tuttavia ancora tante (politiche fiscali unitarie, politiche industriali degne di questo nome, una visione comunitaria condivisa, etc. etc.), e tutte queste strade passano necessariamente su un miglioramento degli strumenti di analisi con cui guardiamo al settore.  L’esigenza di produrre dei report condivisi che permettano di osservare in modo concreto lo stato di salute delle imprese culturali e creative e l’influenza che esse hanno sullo sviluppo territoriale locale e sulla qualità della vita percepita delle persone è ormai improrogabile.  Ci sono dei validi tentativi in questo senso, come il Cultural and Creative Cities Monitor del JRC per quanto riguarda la comparazione tra le diverse città, o come il recente III rapporto dell’associazione Civita per ciò che concerne gli aspetti più prettamente business del comparto.

I DATI UNESCO

Il problema di fondo, tuttavia, non è tanto da ricercare nei buoni o cattivi prodotti statistici che vengono realizzati, quanto piuttosto nella scarsità (qualitativa e quantitativa) dei dati che vengono prodotti. Prendiamo ad esempio il caso dei dati UNESCO che misurano, tra le altre variabili, l’occupazione culturale per tipologia di industria e che sono tra le fonti più accreditate allo stato attuale (e che sono, tra le altre, una fonte importante per il terzo rapporto dell’associazione Civita). I dati UNESCO vengono classificati sulla base della metodologia statistica formalizzata nel Framework for Cultural Statistics (Unesco, 2009) a cui si aggiungono le metodologie di rilevazione utilizzate dai singoli stati membri (per l’Italia si tiene conto soprattutto della Nomenclatura e Classificazione delle Unità Professionali e della Classificazione delle Attività Economiche Ateco) e dall’ESSnet-Culture che definisce nel suo Final Report il grado di “culturalità” di un’impresa sulla base del codice Ateco a cui è iscritta (totally cultural, mainly cultural, partly cultural). Ed è qui che iniziano i problemi.

L'arte di produrre Arte. Rapporto Civita 2017

L’arte di produrre Arte. Rapporto Civita 2017

I CODICI ATECO

Primo: i codici ATECO (che dovrebbero essere la Bibbia) sono per la cultura piuttosto generici; Secondo: le imprese si iscrivono ad un Codice Ateco e poi propongono nelle attività statutarie (giustamente) una serie di possibili azioni che sono necessariamente cross-settoriali; Terzo: questo fa sì che a seconda degli andamenti di mercato un’impresa possa cambiare radicalmente attività senza che questo venga “registrato” dalle statistiche. Questo significa che bisognerebbe rivoluzionare il sistema di rilevazione statistica? Affatto, anche se a medio termine un ripensamento potrebbe essere utile. Significa piuttosto che chi si occupa di redigere report nel settore delle Industrie Culturali e Creative debba avviare anche un proprio “sistema di rilevazione”. Si tratterebbe di verificare che l’attività a cui si è iscritta l’impresa sia ancora quella “prevalente” (anche con operazioni banali, come la verifica del sito internet dell’impresa).  Facendo questo piccolo check verrebbero fuori risultati davvero interessanti: imprese di produzione di spettacoli teatrali (90.02.09 codice ATECO) che diventano agenzie di artisti (codice ATECO 74.90.94, non incluso nella classificazione ESSnet-Culture). Agenzie di Advertising (73.11, incluse nei settori culturali) che si specializzano nell’organizzazione di convegni e fiere campionarie (82.30 non incluse nei settori culturali) e i casi, in questo senso sono davvero tantissimi, così come sono tantissime le imprese “non culturali” che poi forniscono servizi culturali a tutti gli effetti.

SVILUPPARE UNA METODOLOGIA CONDIVISA

Non si tratta di rivoluzionare il lavoro degli statistici, ma di sviluppare una “metodologia” condivisa, una rilevazione “aggiuntiva” rispetto a quanto prodotto da agenzie statistiche nazionali (ISTAT) e internazionali (EUROSTAT o UNESCO). I dati che verrebbero fuori racconterebbero, almeno nel caso italiano, una narrazione molto più vicina alla realtà (rilevando anche le dinamiche di cambiamento del tessuto produttivo), donando maggior senso a dati che invece hanno un carattere del tutto impersonale.  I risultati sarebbero illuminanti. Non si limiterebbero dunque a rilevare quale percentuale delle imprese dell’intrattenimento e delle arti visive sono “ancora in piedi dopo 5 anni” (fonte: III Rapporto associazione Civita), ma direbbero piuttosto quante di queste hanno esteso i propri servizi, quante invece hanno trovato mercato nel loro settore di riferimento, e quante invece si sono rivolte a mercati differenti da quelli dichiarati. E tutto con un semplice click su un sito. Facile, no?

Stefano Monti

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Stefano Monti

Stefano Monti

Stefano Monti, partner Monti&Taft, è attivo in Italia e all’estero nelle attività di management, advisoring, sviluppo e posizionamento strategico, creazione di business model, consulenza economica e finanziaria, analisi di impatti economici e creazione di network di investimento. Da più di…

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