5 motivi per cui il cambio di logo della GNAM di Roma è un errore
Il nuovo brand rischia di creare confusione sui temi, ha una estetica superata e mescola grafica e arte creando qualche conflitto. Tante le incoerenze e il risultato è un impronunciabile "GNAMC"
La Galleria Nazionale di Roma cambia nome tornando a quello precedente: GNAM. Dopo soli 8 anni decide che la denominazione impostata nel 2016 non aveva preso piede e andava annullata e con lei anche il logo disegnato da Designwork sempre nel 2016. Il nuovo logo prescelto, tra un concorso ad inviti allargato a 8 studi, è stato disegnato da Lorenzo Marini prendendo spunto dal colonnato del museo e aggiungendo al nome GNAM una “C” pitturata di rosso (sul serio!) e però anche camaleontica e cangiante.
Mesi turbolenti alla GNAM di Roma
La scelta, le circostanze, la tempistica non ci sembrano particolarmente felici ed elencheremo i motivi; e si aggiungono ad una serie di accadimenti che confermano un momento complicato per questo museo che si è trovato suo malgrado ad accogliere presentazioni di libri discutibili con tanto di squadristi pronti a minacciare e insultare chi contestava, feste di quotidiani trasformate in passerelle di partito dove dirigenti Rai davano dell’infame a giornalisti non allineati al Governo, mostre-scandalo ancor prima di essere inaugurate come quella sul Futurismo (sulla quale altro ancora uscirà purtroppo) e quando i dipendenti hanno osato protestare, le loro rimostranze sono state accolte segnalandone i nomi e i cognomi al Ministero della Cultura.
Si possono insomma cambiare loghi e nomi, ma c’è una seria riflessione da fare su quale sia l’immagine che il museo sta dando di se stesso verso i cittadini, verso i suoi frequentatori abituali e verso la comunità artistica. Ma nella speranza che tante incongruenze verranno meno (incongruenze che peraltro la GNAM condivide con gli altri musei), concentriamoci ora sul nuovo brand e capiamo cosa c’è che non quadra.
1. SBAGLIATO CAMBIARE NOME E LOGO DEL MUSEO COSÌ A RIDOSSO DELL’ULTIMO CAMBIAMENTO
Neppure le aziende private effettuano cambiamenti così repentini quando si tratta di branding. Figuriamoci le istituzioni antiche e storiche come i grandi musei nazionali. Eppure si è deciso di modificare il nome di questo museo dopo soli 8 anni dall’ultimo restyling senza lasciare il tempo necessario alla novità di dispiegare i suoi effetti. È assolutamente normale, infatti, che realtà istituzionali come i musei abbiano necessità di anni o decenni per affermare una nuova denominazione. Succede anche per i toponimi: a Roma abbiamo Piazza della Repubblica che è stata intitolata in questo modo nel 1953 e mezza città ancora la chiama “Piazza Esedra” dopo settant’anni, per tacere di Piazza Buenos Aires che non si sente mai nominare perché tutti la chiamano Piazza Quadrata. Sostenere che il nuovo nome scelto nel 2016 dall’allora direttrice Cristiana Collu non si era “imposto nell’opinione pubblica” è una posizione che si può definire in un solo modo: populista. Nel senso peggiore del termine: “stampa e studiosi ancora utilizzavano il termine GNAM” quindi bisognava tornare indietro. Ma se la stampa e gli studiosi continuano ad utilizzare un nome che è stato ufficialmente modificato da una parte sono giustificati perché quel nome era lì da fine Ottocento, dall’altra si stanno comportando in maniera disinformata e sciatta ma in nessuna delle due ipotesi questo può essere un motivo sufficiente per annullare una modifica così recente.
2. CONFUSIONE COMUNICATIVA
In questo momento, e a diversi giorni dalla presentazione del nuovo nome e del nuovo logo, il museo ha un sito che ancora si chiama “lagallerianazionale” dove c’è ancora il vecchio logo. Ha un profilo Instagram con il nuovo logo, però il vecchio nome di profilo (@lagallerianazionale) ma un’intitolazione col nuovo nome per esteso (Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea) e una ‘bio’ del profilo che cita invece il vecchio nome “La Galleria Nazionale”. Neppure a farlo a posta riesci a generare un caos simile. Su X (quello che fu Twitter) c’è il vecchio brand, il nuovo nome e non si pubblica nulla da un anno. Su Facebook c’è in questo momento il nuovo logo però il vecchio nome del museo, al contrario su YouTube il vecchio logo ma il nuovo nome. Il mal di testa.
Ma la cosa più incomprensibile è che ora il museo vuole chiamarsi “GNAM”, vuole chiamarsi GNAM ma ha il logo su cui sta scritto GNAMC. Ripetiamo per chi si è perso: la impronunciabile scritta “gnamc” è il nuovo logo dell’istituzione “gnam”. Boh.
3. IL CONCETTO DI CONTEMPORANEO E LA “CONCORRENZA” AL MAXXI
Visto che abbiamo elencato un po’ di elementi fuorvianti, occorre riflettere sulla “C” aggiunta al logo. Una “C” che vuole parlare di arte contemporanea. Peccato che nell’ecosistema dei musei statali, quello destinato ad occuparsi di arte contemporanea – almeno su Roma – non è la GNAM bensì il MAXXI. La GNAM infatti non ha una collezione d’arte contemporanea, non allestisce mostre d’arte contemporanea (la prossima sarà appunto sul Futurismo), non ha quel target. Dunque perché fare confusione presso i cittadini, presso i turisti, presso le persone che per la prima volta arriveranno in città per il Giubileo del 2025? Chi vorrà concedersi mezzo pomeriggio per visitare il ‘museo d’arte contemporanea di Roma’ che pasticcio troverà nelle sue ricerche Google?
E a proposito di similitudini col MAXXI c’è da dire che anche il museo di Via Guido Reni ha un logo (questa volta progettato da Inarea di Antonio Romano) declinabile: con la parte finale del nome “XXI” che si articola in tante diverse maniere. Risultato? Mai usate: si adopera solo la versione più istituzionale. Per fortuna.
4. LE SCELTE ESTETICHE DEL LOGO
Già la scelta dello studio di design lascia un po’ di amaro in bocca. Non per Lorenzo Marini in se, che è un maestro con all’attivo loghi importanti (anche di musei, recentemente ha firmato quello della Galleria Borghese) e campagne pubblicitarie efficaci, ma se il tuo obiettivo, caro museo, è – testuale – “far evolvere il posizionamento storico del museo verso un’immagine più giovane, dinamica e aperta alla comunità artistica internazionale” allora perché non fai un concorso con solo giovani studi di grafica, branding e design (magari internazionali appunto) invece di invitare grandi nomi del calibro di Marini che poi ti tirano fuori magari un lavoro un po’ superato e con tanto di “C” spennellata per dare un senso di artistico? Sembra di sognare però è tutto vero: uno dei musei più importanti d’Italia ha una “C” spennellata nel logo, proprio nella parte in cui ci si vuole riferire all’arte contemporanea si fa cenno alla pittura che invece ha più a che spartire eventualmente con l’arte moderna. Confusione su confusione. “Parliamoci chiaro per me è uno scandalo“. Non ci va tanto per il sottile Stefano Cipolla art director di giornali di lunga data e da poco ideatore di Grafica Magazine. “Questa roba è tutto quello che combattiamo, ma perché non hanno chiamato degli studi più aggiornati come i LeftLoft che hanno fatto il logo del MADRE di Napoli o come Maria Cristina Vitelli che ha fatto un bel lavoro per il Palazzo delle Esposizioni oppure come i Mistaker che sono giovani e fanno cose egregie con Roma Europa Festival o Open House” continua Cipolla, che rincara: “quando ho visto il font, il lettering, l’approccio ho pensato di essere stato catapultato all’inizio del millennio, un logo da 2002 o 2003. Ma davvero non riusciamo a vedere quello che fanno i grandi musei del mondo come il Met o la Tate? Non conosco Marini e non voglio parlare male di lui personalmente, ma questo è un approccio al lavoro molto Anni Novanta, è quello che noi cerchiamo professionalmente di combattere“. Artribune ha cercato di capire qualcosa su quali fossero gli altri 7 partecipanti al bando e quanto fosse l’ammontare economico dell’incarico per il vincitore ma una intera giornata di tentativi non ha sortito nessun risultato purtroppo.
5. UN PIZZICO DI CONFLITTO DI INTERESSI?
Ma al di là del giudizio tecnico di uno specialista, c’è anche un discorso di opportunità. Marini infatti – forse alla commissione che ha scelto tra gli 8 studi grafici partecipanti è sfuggito – non è solo un famoso grafico, comunicatore e pubblicitario, ma da qualche anno si è messo in testa con grande convinzione e cospicui investimenti di promozione di fare l’artista: mostre, location, pagine di giornale. La sua fissa è ormai da un po’ quella di emergere anche in quel campo. E la sua ricerca è essenzialmente articolata attorno alle parole, ai caratteri tipografici stilizzati secondo una specifica estetica. Basta osservare alcune composizioni del Marini-artista e affiancarle alla declinazione delle “C” camaleontiche della GNAM del Marini-grafico per capire che parliamo dello stesso linguaggio. Addirittura la C nell’opera d’arte di Lorenzo Marini è una spennellata rossa come la nuova C del museo. Insomma, Marini è riuscito a infilare di fatto una sua opera d’arte nel brand di uno dei più importanti musei del Paese e questo di certo lo aiuterà nella sua carriera d’artista. Caso vuole, infine, che Lorenzo Marini sia uno degli artisti invitati dal curatore Gabriele Simongini nella famigerata mostra sul Futurismo che a giorni inaugurerà proprio alla GNAM, o alla GNAMC fate voi: avrà in mostra una installazione immersiva (sic!).
I cambi di brand sono una cosa più seria di così
In conclusione la cosa più rischiosa di questa modalità è che genera un precedente: ad ogni cambio di direttore, un cambio di logo. Con tutte le conseguenze che questo comporta in termini di costi e di caos comunicativo come abbiamo visto sopra. Se il prossimo direttore della “GNAMC” deciderà che non vuole più tra i piedi la C spennellata di Lorenzo Marini cosa farà? Un nuovo concorso per un nuovo logo con nuove spese? E il prossimo direttore dopo di lui? Non dovrebbe funzionare così.
Massimiliano Tonelli
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