L’eredità di “Manhattan Transfer”. Come Milano sta fallendo pur di puntare in alto

A 100 anni dalla pubblicazione di uno dei libri più influenti del Novecento, torniamo a riflettere sullo sfruttamento e sulla capitalizzazione delle nostre città. Un ritratto della Milano contemporanea tra rigenerazione e gentrificazione

Cent’anni fa – 1925 – John Dos Passos pubblicava Manhattan Transfer, ritenuto uno dei capolavori letterari della modernità. Il romanzo è animato da una ventina di figure di varia estrazione sociale, che cercano la propria affermazione individuale sullo sfondo di una metropoli in continua espansione fino all’apocalisse. Per Cesare Pavese, che recensì il racconto nel 1933, tutte queste figure erano varianti biografiche di un’unica persona, accomunati dalla sete di ricchezza. Una metropoli che fagocita chi vi abita (Dos Passos studiò architettura), al punto che uno dei protagonisti – Jimmy Herf – si chiede: “A che serve passare la vita intera a fuggire dalla Città del disastro?”. Cerca di fuggire lontano, ma non sa dove: è intrappolato in un girone dantesco che arde di grattacieli. Il capitalismo aveva trasformato tutte queste esistenze in disastri personali, fino alla cacciata dal porto di Ellis Island (luogo di quarantena degli immigrati) di chi era in odore di comunismo: “Il ruggito dell’Internazionale sull’acqua che svaniva come un sospiro nella foschia”.  

“Manhattan Transfer” di John Dos Passos 

In questo romanzo Dos Passos, al modo di un ritmo sincopato, si scaglia contro l’organizzazione industriale della depressione, del razzismo e del fallimento, che va addosso alle vite di donne e uomini, i quali, a loro volta, non hanno altra scelta che il suicidio. Tutte le anomalie descritte nel romanzo prefigurano l’auto-annientamento. In questa metropoli chi vi vive non è diverso dalla bestia da soma. Bestia da consumo. Bestia da ricambiare con altre bestie al momento del loro fallimento sociale. Qui, l’umano (ridotto a biografie allucinate) e il bestiale coincidono. Manhattan Transfer è una specie antelitteram di non-luogo letterario, che si adatta al soggetto, che è a sua volta un non-luogo urbano, dove lo spaesamento individuale è l’unica relazione sociale condivisa da milioni di persone. Dos Passos per certi aspetti anticipa le osservazioni di Rem Koolhaas nel suo Delirius New York (1978), quando osserva che la metropoli produce menzogna e delirio.  

Milano e i suoi grattacieli 

È in questo contesto che l’espressione del primo cittadino di Milano (Sala) deve essere misurata: “Io mi dissocio dalla paura dei grattacieli”, come se fossero dei lego – giocattoli che non saziano mai la volontà di costruire mondi dei bambini. La domanda piuttosto è: cosa rappresentano i grattacieli e a chi servono? Dal piano psicologico – la paura – al piano sociale c’è una differenza sostanziale. Lo sfruttamento intensivo dello spazio urbano non può essere separato dalle condizioni sociali, economiche e ambientali di una città. La paura è l’opposto del coraggio. Il primo cittadino di Milano evidentemente è un uomo coraggioso, è un Robin Hood di queste povere creature malate di gigantismo per colpa di qualche architetto giocherellone, ma felice di aver creato dei Frankenstein di cemento. Se queste escrescenze di cemento verticali servono a qualcosa, è certo che servono il potere finanziario e la speculazione che gli è congenita.  

I grattacieli come espressione di un sistema di potere 

D’altra parte, le superfici riflettenti dei grattacieli richiamano le preziose cristallerie delle case principesche, dove al capriccio del disegno architettonico corrisponde quello del magnate insaziabile e vanitoso. Non servono certo i milanesi come quelli che hanno animato le canzoni di Jannacci e dopo, costretti ad abbandonare la loro città per via dei costi impossibili. Non si tratta di aver paura, ma di subire un sistema di potere che uniforma la storia singolare di una città a quelle di altre di metropoli del mondo. Mettere una città nelle mani di una ristretta minoranza, che gioca liberamente ad accaparrarsi ciò che resta del bene pubblico è forse l’unica paura legittima che sorge spontanea di fronte allo scempio di Milano contrabbandata per “rigenerazione urbana”. Ho vissuto per 12 anni a Milano (1986-1998), casa in Corso Como, studio in Via Butti (traversa di viale Jenner). E già la trasformazione della città era in corso. Corso Garibaldi era preda di facoltosi faccendieri che intimidivano gli affittuari delle case di ringhiera per farli sloggiare – quando questi quartieri erano ancora popolari. Oggi l’operazione è compiuta.  

Milano e la gentrificazione 

In una intervista che feci a Tomas Maldonado (1998), tra le altre cose, mi disse che Milano sta adottando il modello statunitense di ciò che oggi si chiama con orgoglio gentrificazione. “Crescita”, “città sostenibile”, “città intelligente”, “boschetti verticali”, “rigenerazione urbana”, tutto questo sciocchezzaio linguistico, questo gergo che fonde economia ed ecologia, sorregge l’impresa in corso della sottrazione dell’ambiente e dello spazio urbano alla fruizione pubblica. Come l’espressione “smart city”, che risale agli Anni Trenta del secolo scorso introdotta da Lewis Mumford, dove avvertiva che in queste parole si nasconde l’inganno: sono esche lanciate nel groviglio di parole che servono a nascondere interessi di parte. Sono parole giustificatrici del maltolto. L’euforia per i grattacieli, la patologia delle torri rappresentano bene l’oscenità urbana condannata alla speculazione finanziaria. E l’accusa di aver “paura” dei grattacieli suona come una intimidazione. Certo, ci vuole molto coraggio per giustificare l’ingiustificabile: la sottrazione del bene comune. E ci vuole molta paura nel sopravvivere in un sistema che da un giorno all’altro ti sbatte la porta in faccia, come accade alle figure di Dos Passos in Manhattan Transfer. 
 
Marcello Faletra 
 
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Marcello Faletra

Marcello Faletra

Marcello Faletra è saggista, artista e autore di numerosi articoli e saggi prevalentemente incentrati sulla critica d’arte, l’estetica e la teoria critica dell’immagine. Tra le sue pubblicazioni: “Dissonanze del tempo. Elementi di archeologia dell’arte contemporanea” (Solfanelli, 2009); “Graffiti. Poetiche della…

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