È uscita una particolare biografia sul mitico artista Gianfranco Baruchello

Una confessione pubblica e un involontario happening biografico. Attraverso un “protocollo” che guarda all’arte di Gianfranco Baruchello. Il nuovo libro di Pablo Echaurren

È stato da poco pubblicato Il mio Baruchello di Pablo Echaurren, per le edizioni mauvais livres di Roma. La prefazione è dello scrittore Valerio Magrelli, il volume chiude con un altro scrittore, Antonio Pennacchi (si tratta di un breve testo scritto nel 2010). Leggendo il Baruchello di Echaurren si scoprono molte cose, sia sulla vita dell’autore che su quelle del suo mentore chiamato in causa.

Il mio Baruchello: una confessione pubblica

Diciamo subito che il libro ha il sapore di una confessione pubblica, là dove Echaurren già nelle prime battute dichiara di esser stato (e forse lo è ancora: si dichiara un neandethaliano) un disadattato, un essere “inadeguato”, che naufragava quotidianamente in uno “stato di disagio”. Intrupparsi da qualche parte, confessa, gli è sempre divenuto difficile, fino a vedersi come un “teppistello”. Una specie di balbettio dell’esistenza lo aveva reso senza una specifica collocazione anagrafica (porterà il cognome della nonna paterna Mercedes Echaurren Herboso) e sociale, fino al punto da farsi “adottare”, come garante morale, da Gianfranco Baruchello.

Gianfranco Baruchello, Mondi possibili, installation view a Villa Farnesina, Roma, 2025 © Alessia Calzecchi
Gianfranco Baruchello, Mondi possibili, installation view a Villa Farnesina, Roma, 2025 © Alessia Calzecchi

Un libro autobiografico

Quasi un involontario happening biografico. “E questo nuovo padre lo torturavo, lo assillavo, non facevo che domandare questo e quello. Un po’ come fanno i mocciosi rompiscatole”, in queste parole entra in gioco tutto il senso del libro su Baruchello. Si tratta del diritto alla biografia non per consuetudine antropologica della cultura come avamposto della filiazione familiare, ma della necessità di stabilire forme e luoghi di (ri)nascita, che non collimano con l’identikit anagrafico. La veridicità implicita nella discendenza anagrafica non implica necessariamente quella di una soggettività in divenire, che l’esperienza mette in gioco. È qui, in questo passaggio, che tutto il libro potrebbe essere letto come una errata corrige. Qualcosa è andato storto, è sfuggito alla normale sequenza biografica, e si corre ai ripari. Arturo Schwarz – suo gallerista e poi amico – lo ricorda con queste parole: “Paino era un capellone…uscito da un’infanzia chiusa e ostile, cattivo studente; scorrazzava con la moto senza marmitta, aveva amicizie pericolose, suonava il basso in una banda anonima e senza futuro ma amava, istintivamente, Tristan Tzara e André Breton”. In questo schizzo veloce c’è tutto Echaurren di ieri e (forse) di oggi. E il mio Baruchello – una biografia dietro la maschera di Baruc – lo dimostra ampiamente.

Tra Baruchello e Duchamp

D’altra parte, la filiazione non è una esclusiva del rapporto biologico, se si pensa che Baruchello, a sua volta, ha avuto per certi aspetti una discendenza riconosciuta da Duchamp stesso quando in una intervista (1966) afferma di apprezzarlo molto perché “dipinge grandi quadri bianchi con tante piccole cose che bisogna guardare da vicino”. In queste esperienze è confermata la vicinanza – o l’assonanza – con la celebre espressione di Arthur Rimbaud fatta nella lettera che scrisse a Paul Demeny nel 1871, che recita: “Perché io è un altro”. Questa espressione ha avuto una lunga storia, soprattutto nella psicanalisi lacaniana. Siamo di fronte a esplorazioni eretiche di altre biografie. Nel corso della nostra esistenza può accadere di trovarsi nell’incertezza di essere nati. In questa prospettiva il libro di Echaurren avrebbe potuto chiamarsi anche: una vita in prestito, oppure antimemorie, ma anche: Baruchello come freno d’emergenza, poiché scorrendo la lettura scopriamo molti fatti biografici su Baruchello e su Echaurren soprattutto. Ma in questo caso, Baruchello, per via della potestà artistica e affettiva, ha agito nell’esperienza di Echaurren come un dispositivo di rottura biografica e culturale. Si tratta di fare di tuo figlio un Baruchello, come recita un breve testo che Jean-François Lyotard ha scritto nel 1979 nella presentazione de L’altra casa per le édition galilée.

Il protocollo Baruchello

Ma come fare di tuo figlio un Baruchello quando hai una madre “che vedeva tanto il Baruc che Schwarz come due ciarlatani?” Il terzo capitolo del libro si chiama appunto “il protocollo Baruchello”, dove Echaurren confessa la sua formazione che oscilla dal dadaismo al surrealismo fino al pop americano. E non solo: Gadda, Queneau, Burroughs, Salinger, la beat generetion… Un labirinto di esperienze fatte a zig-zag, senza una costruzione normativa: “non ero stato informato che la normalità non esiste”. Ciò ha significato un nomadismo avventuroso, un andare a tentoni, un navigare a vista, dove l’unica rotta di navigazione possibile era la conquista di una irriverenza ben temperata. Contaminare i linguaggi dell’arte, mescolare le regole del gioco fino ad approdare ad una specie di “casualità oggettiva”, come affermava Breton. E a volte questa “casualità oggettiva” era sollecitata consultando l’I-Ching, “di cui Gianfranco era un accanito compulsatore”. D’altra parte, la vita è fatta di esperienze non di significati, che arrivano sempre dopo. Ora, la prima regola per fare di tuo figlio un Baruchello è quella delle appropriazioni. Echaurren si “appropria” del procedimento di Baruchello: estrapolare ritagli di giornali, parti di testi didattici, frammenti di discorsi colti a caso o annunci commerciali. Il secondo procedimento consiste nel selezionare “oggetti d’affezione” da collocare sul “deserto” del foglio: si tratta di dare una seconda vita agli oggetti: liberarli dalle catene delle loro specifiche funzioni, e rilanciarli in forme di rivolta (collage, giochi di parole, sovrapposizioni di tecniche…) che configurano una specie del tutto particolare di calembour. I Calembour di fatto sono paradossi, freddure fulminee, agiscono per contrasti, e sono prossimi al witz freudiano.

Infine: “disegnare direttamente a china col pennino, senza prima abbozzare a matita registrando così tutti gli errori e le incertezze, tutte le debolezze del segno”. Quest’ultimo aspetto è l’incontro col fortuito, l’impatto col caso, che fa il resto. In altre parole, la propedeutica Baruchello fa leva sull’energia dell’errore che si manifesta come intensità materiale, che è quella spontanea forza terrena, che non si può inventare, ma solo provocarne l’insorgenza. È un tratto, questo, che arriva a Echaurren – via Baruchello – da Duchamp, su cui si è scritto molto.

Gianfranco Baruchello, Rilievo ideale,1965, Courtesy Fondazione Baruchello
Gianfranco Baruchello, Rilievo ideale,1965, Courtesy Fondazione Baruchello

Il libro di Echaurren

Leggendo il libro ci troviamo di fronte ad una scienza della sovversione non sospetta (Jabés docet), dove l’accidente trionfa come un cavaliere del caso. In questa sovversione la pratica artistica si trasforma in una applicazione della “verifica incerta” sotto altre spoglie, di cui parlavano Baruchello e Grifi in un video ormai leggendario degli anni Sessanta – gli avvenimenti esistono prima di essere scoperti; e sono agglutinati in un flusso-video, un caoide, che è allo stesso tempo un tentativo antigrammaticale della pratica artistica. Un caoide – un caleidoscopio -, che è anche testimonianza di frequentazioni difformi nel panorama artistico e politico, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta; qualche nome: Toti Scialoia, Cy Twombly, Mambor, Italo Calvino, Adriano Spatola (che pubblicò il suo primo libro dal titolo Perizia calligrafica per leedizioni Geiger nel 1976), Nanni Balestrini, Kounellis, Franco Angeli, Emilio Villa, Alvin Curran…la collaborazione con Lotta Continua, l’insorgenza degli Indiani Metropolitani.

Una introduzione all’irriverenza

Il mio Baruchello, in sostanza, è una specie di introduzione all’irriverenza, che ogni biografia porta celatamente in sé. Irriverenza intesa come particolare apertura a un opificio dell’immaginazione materiale, dove esperienze, ricordi, accidenti, impatti d’ogni specie, diventano un linguaggio senza una necessaria articolazione, se non quella di una narrazione tonica animata da accostamenti imprevisti, che aprono il passaggio da ciò che ero a ciò che sono divenuto: divenire diseguale in un festoso potlach – come nel suo caso. Alcuni passaggi di un bel libro di Deleuze (Differenza e ripetizione) colgono bene questo aspetto di Echaurren, quando parla della “sintesi asimmetrica del sensibile”, vale a dire “che il mondo è sempre assimilabile a un resto” (l’asimmetrico, appunto), il quale non può essere definito una volta per tutte. Ogni biografia vive di disparità o di non convergenze (sempre l’ossessione dell’identità!), più o meno celate.

È in questa propedeutica fatta alla scuola di Baruchello, che le parole e le cose, prendono corpo secondo la procedura del collage, che agisce per contiguità, per giustapposizioni di segni, memorie diffratte e immagini impertinenti, insofferenze di varia natura, parole-temi, ecc. Opere senza originale, risultati del caso e dell’incontro fortuito, come esprime bene la formula ante-patafisica di Lautreamont: “bello come l’incontro fortuito su un tavolo operatorio di una macchina da cucire con un ombrello”. E poi ancora. “il cuore umano bello come una sismografia”. D’altra parte, i collage di Echaurren, in sintonia con i monogrammi di Baruchello, ci danno un paesaggio di oggetti e parole – fotografie, citazioni, biglietti, accoppiamenti fonici, allitterazioni, insomma resti del mondo – senza una disposizione logica.

Tra Baruchello e Lautreamont

Siamo davanti a uno scenario segnato a volte dal delirio tipografico-visivo, come accade, appunto, nelle sismografie di Lautreamont. D’altra parte, questo “mio Baruchello” è scritto come i suoi collages: cambiamenti di registro narrativo, flash-back di ricordi, prese di posizione che coesistono con il flusso eterogeneo della narrazione. E, soprattutto, aborriscono il verbo essere, poiché il collage opera per contiguità, agisce per condensazione o per vicinanze impreviste. In altre parole, il collage è prossimo al metodo paratattico: ciò che conta è la congiunzione. E le memorie, i segni – immagini d’ogni specie, oggetti, grafiche acide, ecc. – sono disposti secondo la costellazione, a volte diagrammata come una messa in serie – “i piccoli quadratini” come li chiamava Calvino -, dove ciascun elemento ha pari dignità di visione come gli altri. La paratassi scardina l’ordine gerarchico delle cose, stabilendo una reciprocità tra immagini e segni. Nel teatro epico di Brecht, ad esempio, la paratassi è un procedimento che mette tutti gli attori con i loro rispettivi ruoli sullo stesso piano, come “un’assemblea pubblica”, per usare l’efficace espressione di Magrelli fatta nella prefazione. Ora, in questo mio Baruchello, scritto un po come le sue opere – lampi improvvisi, precipitazioni mnemoniche, che esistono come una eterna periferia, sovrapposizioni con Baruchello -, si può scorgere questa disposizione alla paratassi, che è l’opposto dell’ipotassi; vale a dire opposto alla disposizione degli elementi secondo una gerarchia che ne stabilisce un ordine definitivo. L’ipotassi non tollera il caso, condanna la congiunzione o la contiguità. Il collage (e l’assemblage), al contrario è una linea rossa di questo doppio racconto biografico, scardina il giudizio assiologico, che si traveste nella formulazione dei segni dell’arte secondo istanze mercantilistiche (vale più questo che quello).

Il gesto anarchico di Baruchello

Si potrebbe dire con altre parole che il procedimento paratattico del collage (di Echaurren come del suo Baruchello) è ateo, mentre quello ipotattico è normativo, cioè obbediente a un tribunale del giudizio. Tutto ciò somiglia alla classica separazione che da Saussurre in poi è accaduta nel linguaggio tra significante e significato, che rinvia alla separazione tra anima e corpo della vecchia teologia – forse è per questa teologia camuffata da scienza che Roland Barthes smetterà di fare il semiologo, per passare al corpus della scrittura, cioè “che cos’è per me!”, in altre parole: la natura asociale del piacere. Siamo di fronte alla pratica della memoria disseminata come un’esperienza anti-didattica, che originandosi dallo spirito anarcoide di Baruchello arriva a Echaurren, aggiungendovi il gesto dello humor e l’impertinenza della parodia. Una istigazione all’abbandono dell’arte come istituzionalizzazione dell’immaginazione. E l’arte di Baruchello, come racconta il suo fedele discepolo Echaurren, che sorprese Duchamp, pone al centro la domanda capitale: cos’é l’arte (e la vita) senza il piacere?

Marcello Faletra

Pablo Echaurren, Il mio Baruchello
Mauvais Livres, 2025
pag. 176, € 23,00
ISBN 9791280264121
https://mauvaislivres.com/

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Marcello Faletra

Marcello Faletra

Marcello Faletra è saggista, artista e autore di numerosi articoli e saggi prevalentemente incentrati sulla critica d’arte, l’estetica e la teoria critica dell’immagine. Tra le sue pubblicazioni: “Dissonanze del tempo. Elementi di archeologia dell’arte contemporanea” (Solfanelli, 2009); “Graffiti. Poetiche della…

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