John Cheever e la letteratura del conflitto a 40 anni dalla morte

Se ne andava quarant’anni fa uno degli scrittori più importanti del Novecento statunitense, che ha scavato nel lato conflittuale dell’essere umano e ne ha messo in luce gli aspetti più nobili. William John Cheever ha narrato l’esistenza indagando la zona grigia tra realtà e finzione

Il bisogno di scrivere viene dal bisogno di dare un senso alla propria vita e sentirsi utili

Nonostante sia nato in una famiglia agiata ‒ il padre era un ricco commerciante di calzature ‒, William John Cheever (Quincy, 1912 – Ossining, 1982) conobbe presto le difficoltà della vita: l’alcolismo del padre e la crisi finanziaria del 1929 gettarono la sua famiglia sul lastrico, e probabilmente queste difficoltà hanno influito su un carattere che, comunque, era di per sé già ribelle e problematico. Ma la scrittura è stata da sempre la sua vocazione, su questo non ha mai esitato, e sin dal 1935 i suoi racconti apparvero sul New Yorker. La sua carriera decollò nel dopoguerra, in un’America oppressa dal maccartismo e dall’ipocrisia, cui Cheever rispose con pagine di letteratura sommessa, mai magniloquente, eppure tagliente, carnale, profondamente autentica perché ispirata alla vita. Che non poteva essere perfetta come si voleva far credere. Lo scrittore va contro queste convinzioni, senza che i suoi personaggi compiano atti particolarmente eclatanti: restano quello che sono, monumenti viventi a un sistema di vita opprimente.

Edward Hopper, Nighthawks, 1942. Art Institute of Chicago, Chicago

Edward Hopper, Nighthawks, 1942. Art Institute of Chicago, Chicago

LA POESIA DEL CONFLITTO SECONDO CHEEVER

Se i racconti di Raymond Carver sono caratterizzati da un quasi costante senso di perdita, quelli di Cheever sono invece conflittuali; una conflittualità che può essere interiore, oppure sviluppata nel confronto/scontro fra due personaggi, i quali, potenzialmente, sono come quelli di Fitzgerald, esuberanti e dannati; ma anziché “esibirsi”, si perdono nell’abisso delle loro difficoltà personali, sono introspettivi e si lasciano avvolgere dalle tenebre interiori. Per quanto luminosa possa essere la realtà circostante, non riesce a coinvolgerli, a renderli in qualche modo protagonisti. O meglio, i personaggi di Cheever sono protagonisti di dolorose e faticose lotte interiori, che spesso si risolvono davanti a una bottiglia. E a voler cercare una rispondenza artistica, Edward Hopper con Nighthawks sembra interpretare al meglio queste atmosfere. Lo stesso Cheever, in fondo, è stato un “conflitto vivente”: dimostrava disprezzo per gli omosessuali, ma in realtà era bisessuale ed ebbe relazioni segrete con diversi uomini; ammetteva che uno scrittore ha bisogno dei lettori, ma sopportava poco la folla e la fama. Questo abisso tra apparenza e interiorità che caratterizza la sua opera lo avvicina sensibilmente a Tennessee Williams, il più Grande drammaturgo statunitense dai tempi di Eugene O’Neill. Non era facile vivere negli Stati Uniti del dopoguerra e degli Anni Sessanta, perché al benessere economico si contrapponeva una pesante cappa di puritanesimo e ipocrisia che soffocava letteralmente la personalità. Ma proprio in questa forza di lottare sta la grandezza dell’individuo, secondo Cheever. Si lotta aggrappandosi alla bellezza del tramonto, al profumo dei fiori, all’estasi del sesso, e per un attimo si diventa leggeri come farfalle.

La prima edizione statunitense di “Falconer” di John Cheever, edita da Knopf Doubleday Publishing Group nel 1975

La prima edizione statunitense di “Falconer” di John Cheever, edita da Knopf Doubleday Publishing Group nel 1975

LA LIBERTÀ NEI ROMANZI DI CHEEVER

Dolorosa metafora dell’esistenza ingabbiata, Falconer (pubblicato nel 1975) è considerato il suo capolavoro, la sintesi della sua stessa esistenza e di milioni di altri americani come lui. Nel carcere che dà il titolo al libro, è rinchiuso Ezekiel Farragut, per l’omicidio del fratello che è forse stato un incidente, ma che invece gli costerà una probabile condanna all’ergastolo. Fra le mura della cella, l’uomo comprende che probabilmente ha sempre vissuto da prigioniero: all’ombra di una donna dalla troppo forte personalità e sensualità; dipendente dall’eroina; schiavo delle apparenze. Nelle lettere che scrive al vescovo della sua città, al governatore dello Stato, alla moglie, lettere piene di riflessioni, ricordi, allusioni, si concretizza quell’ideale evasione dalla finzione, e per citare ancora Hopper, Cheever/Farragut si affaccia sul vasto mare dell’infinito e ne respira l’odore salmastro. Perché anche Cheever ha le sue gabbie: l’omosessualità che cerca di tenere nascosta e l’alcolismo, e come Farragut scrive lettere un po’ a tutti ‒ moglie, amici, ex amanti ‒ per mettere qual caos nero su bianco e chiarirlo anche a se stesso.
Come afferma Chicken Number Two, uno dei personaggi del romanzo, “ci deve essere qualcosa di buono alla fine di ogni viaggio“. Forse quel qualcosa non è necessariamente buono, ma, sembra dirci Cheever, vale comunque la pena affrontare il viaggio. Ma la grandezza e l’attualità di Cheever stanno nel saper essere, per dirla con Malaparte, “liberi in una prigione”. È qui che Cheever può ispirare il lettore di oggi, a essere libero dall’aggressione dei falsi bisogni indotti dal consumismo, a spezzare le catene di un politicamente corretto che genera soltanto insicurezze e disorientamento, impedendo di conoscere se stessi.

Niccolò Lucarelli

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Niccolò Lucarelli

Niccolò Lucarelli

Laureato in Studi Internazionali, è curatore, critico d’arte, di teatro e di jazz, e saggista di storia militare. Scrive su varie riviste di settore, cercando di fissare sulla pagina quella bellezza che, a ben guardare, ancora esiste nel mondo.

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