Il giovane Holden e la Sirenetta. Riflessioni sul libro “Senza titolo. Le metafore della didascalia”

Il progetto "Senza titolo" affronta le didascalie museali come oggetto di studio complesso, metafora delle possibilità dell'interpretazione nell'intreccio fra parola e immagine. La Fondazione Querini Stampalia di Venezia dal 2017 organizza corsi di formazione per operatori museali su questi temi. A ottobre la prossima edizione.

Il libro Senza titolo. Le metafore della didascalia (Nomos Edizioni), a guardare la copertina, è a cura di Maria Chiara Ciaccheri, Anna Chiara Cimoli e Nicole Moolhuijsen, tre nomi che già sono una sorta di garanzia di alta professionalità; ma non lasciatevi ingannare, perché all’interno ci sono altri tre contributi da non trascurare, quello di Monica Calcagno sulla Fondazione Querini Stampalia di Venezia come case study, quello di Enrico Giori sulla grafica, che non è la Cenerentola del gruppo, ma l’alchimia fondante, e l’intervista di Maria Elena Colombo a James Bradburne.
Il saggio, frutto del progetto di formazione Senza titolo promosso da diversi anni dalla Fondazione Querini Stampalia, è di agile lettura, ma agitatore di considerazioni profonde, dotato di un’ottima bibliografia, che contiene certo i “mostri sacri” che molti di noi conoscono, ma anche i preziosi risultati delle più recenti elaborazioni in merito al tema, e affronta quello che per la maggior parte dei musei è il tallone d’Achille delle mostre.
Chi non si è trovato, almeno una volta, a confrontarsi con i commenti del pubblico in merito alle didascalie? O a discutere della loro grafica nelle riunioni sugli allestimenti? Da una parte e dall’altra di ogni progetto espositivo, che si stia con i curatori o con i visitatori, la strada è lastricata di buone intenzioni, di decisioni non sempre condivise e di critiche feroci.
Le didascalie cercano di non interferire con l’allestimento e hanno una loro posizione estetica nella sala? Ecco che il pubblico non riesce ad abbinarle alle opere, anche se provvisto di ogni indicatore. Sono vicino alle opere? Si chiede a gran voce il white cube intonso. Hanno un testo a corredo? I visitatori preferirebbero un libretto con i testi? Si stampa il libretto con i testi? Si reclamano indietro le didascalie tradizionali, che così non si deve ogni volta cercare una pagina. Per non parlare dei testi: troppo grandi, troppo piccoli… La vita della compilazione delle didascalie è un’eterna dialettica tra Il giovane Holden e la trasposizione disneyana de La Sirenetta: in Salinger il protagonista amava tornare al museo perché gli dava la sicurezza di poter trovare, ogni volta, le stesse identiche cose, mentre il gabbiano Scuttle, davanti ad Ariel che gli porta da esaminare una forchetta e una pipa, dirà con assoluta serietà che sono un arricciaspiccia, per arricciare i capelli, e un soffiablabla, per fare le bolle di sapone.

L’IMPORTANZA DELLE DIDASCALIE

Tra l’arroccamento dei musei che vedono le didascalie come i precetti del Levitico, inamovibili e fondanti, e quelli che optano per non dare spiegazioni, incoraggiando la libera interpretazione, stanno cinquanta sfumature di scelte, di cui il testo fa una disamina, identificando dei nodi cruciali. Come afferma James Bradburne, “la didascalia è la somma di tutti gli atti intenzionali dei quali un’istituzione si serve per creare significato”. Non è mai, davvero mai, un’operazione neutrale, e maggiore è la sua difesa in nome di una presunta scientificità, minore sarà la sua potenza comunicativa.
In italiano, ma anche in arabo, la parola è legata al greco, significa insegnare, quindi pone nella sua genesi l’accento su una direzione data per scontata, dal maestro all’allievo. Più vincolante il francese “légende”, cioè da leggere, dal latino, e più libero e interessante l’inglese “caption”, anche questo dal latino, che punta l’accento su un concetto da afferrare. Ecco, le autrici del libro sono rivolte a quella bussola, quella dell’istante cruciale in cui lo sguardo interroga la didascalia, e, a seconda di ciò che vi trova o non vi trova, attiverà un relè che genererà acquisizione passiva, interesse, percezione di partecipazione, rabbia, esclusione. Basta poco, le parole sono spesso più munizioni che genere di conforto, e la scelta di termini errati, esclusivi, ridondanti o eccessivi rivelerà senza mezzi termini quali sono le scelte ‒ non solo culturali ma anche politiche ed economiche ‒ alla base delle didascalie.
Il libro, infatti, mette in evidenza la crepa tuttora esistente tra una riflessione museografica aggiornata e coraggiosa, sensibile a una situazione sociale in cui è aumentata l’importanza data agli interlocutori e alle istanze, alle diversità e alle identità di cui si fanno portavoce, e le istituzioni museali che non sempre vedono nelle didascalie un vettore trainante della percezione del museo, uno strumento strategico dalle potenzialità non inesplorate ma, come si legge in questo testo, già da tempo messe in campo, sottoposte ad analisi, critiche e revisioni, vagliate anche nella loro grafica, parte integrante della possibilità di fare presa, come ricorda Enrico Giori.

Una collezione veneziana. Progetto di Michele De Lucchi. Fondazione Querini Stampalia, Venezia 2018. Photo © Alessandra Chemollo

Una collezione veneziana. Progetto di Michele De Lucchi. Fondazione Querini Stampalia, Venezia 2018. Photo © Alessandra Chemollo

LE OPINIONI DELLE AUTRICI

Sta a Maria Chiara Ciaccheri aiutarci nel leggere l’evoluzione della relazione tra i musei, le opere e le didascalie da una parte, e l’elemento del pubblico dall’altra, che da mero fruitore vede un riconoscimento di un ruolo, con un’attenzione quanto mai mirata al dibattito contemporaneo, e a Nicole Moolhuijsen, invece, l’analisi delle interazioni, delle frizioni e delle resistenze rispetto a questo tema. Non si tratta del sistema binario legato alla divisione tra mostre centrate sugli oggetti e mostre centrate sul pubblico, ovvero tra progetti scientifici che vogliono focalizzarsi su un tema, e progetti che invece sviluppano una proposta a partire da una necessità del pubblico visto come interlocutore fondante. Si tratta di capire che in ogni situazione il pubblico è il cuore, è il polmone del museo. Il museo può pensare, ma serve che a chi cammina per le sale batta il cuore, che qualcuno ci respiri, tra quelle opere, per dare loro significato, aprendo ovviamente un grande interrogativo su come un investimento sulle didascalie e la relazione con il pubblico possa avere luogo e riscontro nei musei affollati da milioni di persone.
Ad Anna Chiara Cimoli va il merito di aver saputo raccontare, con una solida articolazione, alcuni casi in cui i musei hanno fatto scelte cruciali di rinegoziazione dei contenuti delle didascalie, consentendo di capire quanto questo processo non sia indolore e comporti una presa di posizione sapiente e lucida dell’intero staff del museo, a partire dalla direzione.
A chiusura, nell’intervista di Maria Elena Colombo, l’illuminante metafora di Bradburne: “First fish”, il visitatore vuole prima vedere il pesce, poi accetterà le spiegazioni, inteso ‒riferito a una visita a un acquario ‒ che le aspettative dei visitatori e il loro desiderio debbano essere prioritari per un museo, e solo dopo avere colmato la fame della visione si potrà fare un invito alla lettura. Se non altro per dimostrare che non sempre ha ragione Arthur Bloch, quando ne La legge di Murphy scrive: “Gli esemplari, gli oggetti o le opere più interessanti saranno senza targhetta”.

Giovanna Brambilla

Maria Chiara Ciaccheri, Anna Chiara Cimoli, Nicole Moolhuijsen ‒ Senza titolo. Le metafore della didascalia
Nomos Edizioni, Busto Arsizio 2020
Pagg. 104, € 14,50
ISBN 9788894811612
www.nomosedizioni.it

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Giovanna Brambilla

Giovanna Brambilla

Responsabile dei Servizi Educativi alla GAMeC di Bergamo e docente a contratto dell'Università Cattolica di Milano.

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