Il Cile dell’arte e della cultura a 50 anni dal Golpe

Il 2024 segna il cinquantesimo anniversario dalla Biennale di Venezia che fu dedicata al popolo cileno, sconvolto dal colpo di stato che rovesciò il governo del socialista Salvador Allende. Nasce così un clima culturale di resistenza che incrocia attivismo, street art e femminismo. Che arriva fino ad oggi

Gli eventi che hanno seguito il Golpe in Cile dell’11 settembre 1973 e la dedica della Biennale di Venezia al popolo cileno nel 1974 ci rammentano ancora oggi la fondamentale importanza del Paese sul piano sociopolitico e culturale internazionale. Il Cile, che si sviluppa stretto e lungo alla fine del mondo, pur nella sua dimensione ridotta e nella collocazione geografica appartata, con la sua storia ha influenzato molti altri Paesi, anticipando ciò che il mondo, per alcuni versi, avrebbe vissuto più avanti, seppur non nei termini feroci di un regime militare.
Era il 1970 quando Salvador Allende, medico, socialista e leader di Unidad Popular, vinceva le elezioni presidenziali dopo tre tentativi. Il suo successo era sotto lo sguardo del mondo e l’Europa – Italia e Francia in particolare – seguiva con attenzione il suo progetto. Nel 1969 fu tra i promotori della coalizione di partiti e movimenti di sinistra che cercavano di instaurare una democrazia nuova. Definita la via cilena al socialismo, quella di Allende è stata una rivoluzione popolare dolce, lontana dall’URSS e dalla lotta armata di Cuba, fermata col sangue dopo tre anni dall’insediamento.
Il mondo era diviso in due dalla Guerra Fredda e l’azione di Unidad Popular s’inseriva in un territorio di grandi disparità sociali. L’economia nazionale era caratterizzata dallo sfruttamento privato, straniero, delle risorse pubbliche. Unidad Popular e Allende attuarono una progressiva partecipazione popolare nella cosa pubblica e, nel quadro di una riforma economica pianificata, necessaria per far fronte alla crisi, vennero approvate le leggi di nazionalizzazione delle imprese. La cosa preoccupava gli Stati Uniti, che avevano interessi diretti ma, soprattutto, non volevano che le politiche socialiste si estendessero ulteriormente in Cile e non solo: alcuni documenti dell’Archivio di Sicurezza Nazionale degli USA desecretati nel 2020 esprimono chiaramente la preoccupazione che a seguire le orme di Allende fossero anche i Paesi europei, in particolare Francia e Italia, oltre a confermare la mano di Kissinger e Nixon nel rovesciamento del presidente cileno.
Nel frattempo erano tornati nel Paese i cosiddetti Chicago Boys, studenti delle università del Cile andati a frequentare la Scuola di Economia guidata da Milton Friedman a Chicago. La loro presenza offrì alla Giunta militare il sostrato culturale e il modello economico per sorreggere la dittatura.
Arrivarono l’11 settembre 1973, l’attacco a La Moneda, il suicidio di Allende e l’inizio del “laboratorio Cile”. Una “prova generale” della trasformazione sociale che poi sarebbe stata globale, e fu lì agita dalla dittatura e dal neoliberismo che questa stava per introdurre.

L’estetica teatrale del Golpe, i corpi e lo spazio pubblico

In uno dei saggi contenuti in Errante, Erratica. Pensare il limite tra letteratura, arte e politica (Mimesis, 2022), Diamela Eltit – scrittrice e membro del collettivo CADA, Colectivo Acciones de Arte – racconta le ore del Golpe come fossero una messa in scena teatrale, in cui ciascun militare si muoveva nello spazio secondo una precisa scrittura. L’attacco aereo, i bombardamenti e poi il coprifuoco e il silenzio rotto solo dalle mitragliate, così descritti rimandano chiaramente all’immagine del cambiamento dello spazio pubblico e dei corpi che lo abitavano, costringendo alla dimensione domestica, anticipatrice di quella individualista propria della società neoliberista. L’estetica teatrale in qualche modo introduce la costruzione a tavolino di nuovo modo di stare al mondo: l’applicazione pratica del neoliberismo quale fatto totale, come direbbe l’antropologo Marcel Mauss.
Il Cile – molto prima della Gran Bretagna di Thatcher e dell’America di Reagan – ha vissuto la società frantumarsi e lo spazio pubblico passare da dimensione collettiva di costruzione democratica a sfera relazionale fondata sul calcolo.
Per la prima volta le teorie di Friedman presero corpo, attraverso il piano economico presentato dai Chicago Boys a Pinochet, che lo adottò sino a fondare sui principi lì espressi la Costituzione del 1980 ancora vigente. 
Nella scena raccontata da Diamela Eltit a un certo punto fanno la loro comparsa i cartoni animati, strategia di distrazione di massa adottata dal neo-regime per intrattenere (e indottrinare) il popolo con la televisione nelle prime ore del Golpe. I cartoon erano ovviamente nordamericani, infarciti di imperialismo, così come già denunciato nel libro Para leer el Pato Donald (1971) del cileno-argentino Ariel Dorfman e del belga Armand Matterlat. Il saggio propone una lettura marxista dei fumetti Disney, evidenziando il messaggio capitalista e razzista dietro l’apparente innocenza. Non stupisce che – pubblicato in Cile all’inizio del percorso di emancipazione dall’imperialismo economico USA – in dittatura venne bruciato e ne fu impedita la ristampa. 
Durante le campagne di Allende e di Unidad Popular, lo spazio pubblico era espressione e contesto di partecipazione popolare. Fu il periodo d’oro della grafica e del muralismo, gli artisti visivi – come anche i letterati e i musicisti (era il periodo della Nueva Canción Chilena) – in larghissima parte appoggiavano la via socialista. Il Cile era tappezzato di affiche che nel Paese avevano una lunga tradizione, arrivata dall’Europa del XIX Secolo e adottata fin dal 1920 come forma di comunicazione politica.
Così come per i murales, i manifesti vennero subito distrutti o cancellati; la pulizia dai simboli di Unidad Popular –prese significativamente il nome delle politiche di sbiancamento razziale di memoria coloniale (blanqueo), evidenziando una continuità tra neoliberismo e colonialismo, già disvelata da Para leer el Pato Donald.
Seguirono la distruzione di monumenti, la rinominazione e la ridefinizione d’uso di spazi pubblici ed edifici, in nome di un nazionalismo che avrebbe poi segnato pure gli altri Paesi guidati dal neoliberismo, in piena contraddizione con il libero scambio di merci e la globalizzazione che genera. Dall’estetica pubblica all’estetica dei corpi, la ripulitura dai segni di “sovversione” colpiva tutto.

Gli effetti del Golpe sul piano internazionale

Si diceva, all’inizio, dell’influenza che la storia cilena del secondo Novecento ebbe sul piano internazionale. In questo quadro non va trascurata la posizione dell’Italia tra i due blocchi della Guerra Fredda. Poco dopo il Colpo di Stato, la rivista Rinascita pubblicò il primo dei tre articoli di Enrico Berlinguer sui “fatti cileni”. Il Segretario del Partito Comunista Italiano, pur evidenziando le differenze tra Italia e Cile sotto il profilo sociopolitico, istituzionale, culturale e produttivo, mise tuttavia in evidenza le analogie tra i Paesi e, richiamando l’attenzione di chi era impegnato per la libertà dei popoli, indicava da subito le responsabilità degli Stati Uniti. Dalle riflessioni sulla “lezione cilena” elaborò il progetto del Compromesso storico, destinato a naufragare con l’omicidio di Aldo Moro. Nel frattempo, iniziò il periodo dell’esilio e in particolare l’Ambasciata italiana a Santiago ospitò moltissimi, poi aiutati a scappare dal Paese. In Italia le vicende in corso colpirono particolarmente la sensibilità di quella che ancora era l’epoca delle Ideologie; non va dimenticato il tentato Golpe Borghese del 1970 e la costante attenzione a possibili derive fasciste.
In Europa si moltiplicarono le manifestazioni a sostegno del pueblo chileno. A Milano, attorno alla Galleria di Porta Ticinese si organizzò la Mostra Incessante per il Cile, che dal 1973 al 1977 ospitò interventi ed opere di artisti e collettivi di studenti, diventando così l’epicentro di innumerevoli mobilitazioni.
A Londra, nel 1974, nacque il collettivo Artists for Democracycomposto da David Medalla, Cecilia Vicuña – uscita nel ‘73 dal Cile –, John Dugger e dal critico Guy Brett, che avevano l’obiettivo di offrire un aiuto materiale ai movimenti di liberazione nel mondo. Il gruppo rimase attivo fino al 1977 e il suo primo intervento fu Arts Festival for Democracy in Chile, al Royal College of Art, a cui fu invitato anche Roberto Matta, per realizzare dei murales. L’artista, che viveva oramai da molti anni fuori del Cile, aveva comunque espresso il suo appoggio alla causa socialista e nel 1971 aveva realizzato, a Santiago, il murale El primer gol del pueblo chileno, anche questo poi oggetto del blanqueamiento. È del 1973 la mostra al Museo Civico di Bologna, Insieme a Matta per il Cile.
La storica dell’arte Paulina Caro Troncoso, nel segnalare la partecipazione di Matta ai molti eventi internazionali a favore del popolo cileno, rileva come anche la sua collezione di arpilleras fosse sintomo di un preciso impegno nella rete di solidarietà, offrendo al contempo nuove opportunità d’indagine su come queste opere fossero uscite dal Paese durante la dittatura. Le arpilleras – piccoli lavori tipicamente cileni, di tradizione femminile e realizzati con ricami su tessuti di recupero – negli anni Settanta ebbero come tema principale proprio i fatti del Golpe, ben celati da simbologie e segni capaci di superare il limite della censura, come scrisse Brett sulla rivista femminista britannica Spare Rib nel 1977. 
E arriviamo alla Biennale di Venezia che nel 1974 offrì il suo appoggio solidale. L’edizione fu infatti dedicata al popolo cileno per volontà dell’allora Presidente dell’ente, il socialista Carlo Ripa di Meana. Nel 2023 è uscito B74-78. Lorenzo Capellini. Un racconto fotografico, dedicato agli anni della sua presidenza e edito proprio da La Biennale. Il volume si apre con Matta che dipinge, e con il ritratto degli Intillimani invitati ad esibirsi. Fu un’edizione anomala, inaugurata alla presenza di Ortensia Allende, moglie del presidente del Cile, e caratterizzata da interventi dell’artista cileno ed Emilio Vedova nelle calli, da spettacoli teatrali, concerti e mostre di manifesti.

Paula Conoepan La Matriz 2014 videoperformance Il Cile dell’arte e della cultura a 50 anni dal Golpe
Paula Coñoepan, La Matriz, 2014, videoperformance

Gli Anni Ottanta: dopo la stasi gli artisti si prendono le strade

L’esperienza del Cile evidenzia il rapporto tra assunzione di responsabilità sociale, economia neoliberista e spazio pubblico, come nesso tra esperienza umana, politica e artistica. Nella transizione repentina tra percorso democratico e dittatura neoliberista, fu invitabile una stasi iniziale dell’espressione culturale pubblica, ma alla fine degli anni Settanta gli artisti iniziarono a prendersi le strade. Nacque CADA, Colectivo Acciones de Arte (1979-1985) che faceva dello spazio negato al corpo il campo alternativo all’istituzionalità dei musei. Agire significava non solo esprimere una denuncia, ma soprattutto riconfigurare lo spazio pubblico.
Altri artisti seguirono quelle orme. Nel 1986 con la performance Dos Preguntas, Janet Toro – che aveva lasciato la pittura – in collaborazione con Claudia Winther tentò di ricompattare la comunità dissolta facendo appello al sentimento. Le due, ferme in strada, avevano appeso al collo un cartello, ciascuna con una domanda: “Perché sei triste?”, “Perché sorridi?”. Con un gesto semplice, che presupponeva l’offerta di ascolto basata sulla comune esperienza del dolore (difficile non ravvedere una vicinanza all’installazione di Alfredo Jaar, Estudios sobre la Felicidad, 1979-1981), l’artista riuscì a raccogliere attorno a sé i passanti (e l’attenzione dei Carabinieri). Dunque, Toro agì la momentanea ricostruzione del tessuto sociale attraverso una silente dinamica di dono, sempre per richiamarci al già citato Marcel Mauss.
La storia del Cile offre l’opportunità di sondare l’esperienza anzitempo dell’individualismo nella frantumazione dello spazio pubblico che, in effetti, nella società governata dal libero mercato non scompare, ma piuttosto si parcellizza. Lo spazio da collettivo diviene campo d’interesse di gruppi sempre più piccoli, dunque le azioni degli artisti, in dittatura, spesso cercavano forme di dialogo con le comunità, finendo così per estendere lo spazio (nulla a che vedere con la futura arte relazionale e la successiva deriva retorica). Sul finire degli anni Ottanta, inoltre, si svilupparono alleanze tra artisti nelle lotte comuni, di contro all’edonismo o individualismo del post-collettivo tipico del superamento delle neoavanguardie. 
È dunque legittimo domandarsi, alla luce di quelle esperienze e delle azioni performative della più recente scena – perlopiù espresse durante le proteste sociali – se queste ultime pratiche siano figlie dell’opposizione al neoliberismo o, piuttosto, non derivino in qualche modo dallo stesso. 

Yeguas del Apocalipsis, Refundación de la Universidad de Chile, 1988, performance. Photo Ulises Nilo. Courtesy of the artists
Yeguas del Apocalipsis, Refundación de la Universidad de Chile, 1988, performance. Photo Ulises Nilo. Courtesy of the artists

Fine dittatura. I luoghi simbolo e i movimenti sociali del nuovo millennio

Col ritorno alla democrazia negli anni Novanta, il Cile ha iniziato un progressivo investimento nelle politiche culturali, che ha incluso l’apertura di nuovi spazi in un lungo cammino verso la memoria.
Agli inizi degli anni 2000 nel Palazzo della Zecca (meglio noto come La Moneda) si è aperto un centro culturale, tentando una risemantizzazione nel quadro della più ampia riqualificazione urbana, denominata Proyecto Plaza de la Cuidadania. Così come la dittatura aveva agito la sua cancellazione, il Governo della Concertazione operò un cambiamento per rendere l’area una zona di rinascita e condivisione.
Nel quadro della costruzione di Siti della Memoria s’inserisce l’Estadio Chile, dal 2003 rinominato Estadio Victor Jara, in omaggio al cantautore esponente della Nueva Canción Chilena, massacrato in quello che fu, nei primi anni del regime, il più grande centro di detenzione, tortura ed esecuzione del Paese.
Tra gli altri interventi, anche Villa Grimaldi è stata convertita in luogo di cultura. Qui operava la DINA-Dirección de Inteligencia Nacional, in un possedimento appartato, quasi ai margini della campagna, cosa che facilitava le operazioni a cui fu destinata: la soppressione dei partiti di sinistra.  
La riconversione dei luoghi e il continuo rinnovarsi delle denominazioni, a seguito degli stravolgimenti sociopolitici di 50 anni fa, suggerisce di guardare al dibattito intorno alla monumentalistica – molto forte in Cile e condotto dal collettivo Monumentos Incomodos  con riferimento alla mancanza di continuità storica, che il filosofo
Christopher Lasch ravvedeva tra le cause della disintegrazione dello spazio pubblico nel neoliberismo. Il tema ci riconduce alla fugacità dell’oggi, implementata dalla stessa dottrina. Che la ciclica cancellazione in qualche modo non la faciliti? Che non crei un cortocircuito confondendo ulteriormente cause ed effetti?

Federica La Paglia

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