Giardini e arte contemporanea. A Berlino

Al Gropius Bau di Berlino l’esposizione “Garden of Earthly Delights” guarda al giardino come metafora del presente. Esplorandolo nella sua complessità e in rapporto alle urgenze del pianeta.

Fin dalla notte dei tempi non è stato facile attribuire un senso univoco al giardino, insieme enclave, spazio ristretto, paradiso o regno del caos, ambiguo luogo di segregazione ma anche di riflessione o di amena contemplazione. Da qualunque angolazione lo si voglia guardare, oggi, al tempo di migrazioni e con l’avvento dell’antropocene, il giardino mostra ulteriori potenzialità interpretative, come dimostra Garden of Earthly Delights, in corso a Berlino al Gropius Bau. Venti artisti internazionali sviluppano una lettura contemporanea del giardino che i curatori, Stephanie Rosenthal e Clara Meister, indirizzano in cinque ambiti sottoponendo il tema a un’acuta dissezione speculativa.
A cominciare da Rashid Johnson e dal suo ecosistema, una poderosa struttura a griglia che è insieme memoria personale e collettiva, in grado di accogliere specie botaniche e testimonianze varie, libri, dischi, film delle comunità nere negli Stati Uniti. Su questo filone si aprono interrogativi in merito al giardino botanico che, nella sua enfasi tassonomica, è parte integrante della storia del colonialismo e, di conseguenza, le specie vegetali esotiche sono strumenti per tracciare le rotte dei passati imperi. Lo dimostrano le piante parlanti che dichiarano il proprio spaesamento e auspicano un repentino ritorno ai luoghi d’origine con Maria Thereza Alves, autrice anche del giardino esterno, un esperimento di archeologia botanica creato con i semi trovati negli scavi lungo la Sprea.

Maria Thereza Alves, Wake. Reintroducing the Obliterated Flora of the Spree River-bank, 2019. Photo Mathias Völzke. Courtesy the artist

Maria Thereza Alves, Wake. Reintroducing the Obliterated Flora of the Spree River-bank, 2019. Photo Mathias Völzke. Courtesy the artist

POLITICA E SOCIETÀ

Da questo punto di vista, l’intero regno vegetale può essere riletto come testimonianza di politiche predatorie, cominciando dalla presunzione colonialista di servirsi della classificazione di Linneo in tutta la superficie terrestre. Ci pensa Uriel Orlow a restituire, alle culture soccombenti, la denominazione delle piante nelle rispettive lingue locali o a riflettere sul senso politico del giardino come segregazione, nelle immagini dell’hortus conclusus (in questo caso letterale), concesso a Mandela e agli altri detenuti nella prigione di Robben Island.
Non diverso è l’accesso partendo dalla prospettiva classica che individua nel giardino l’antitesi tra bene e male, tra paradiso e inferno secondo il celebre The Garden of Earthly Delights di Hieronymus Bosch che dà il titolo alla mostra e la apre con una versione del 1535-1550, creata dalla sua scuola. Nella stessa stanza, un tappeto persiano, della fine del XVIII secolo, riprende il punto di vista e descrive, nella mirabile tessitura, il giardino/paradiso come spazio recintato (pairidaeza, dal persiano, recinto), con un muro che ne preserva l’armonia. Una condizione di alterato distacco dal mondo ribadita nell’installazione immersiva di Hicham Berrada, buia come una notte eterna per consentire al gelsomino, fiore notturno, di rilasciare incessantemente la sua intensa profumazione. L’utopia olfattiva diventata utopia visiva con Pipilotti Rist, che governa una natura inclusiva, dove umano e vegetale si incontrano in un lungo video grazie a due donne alla ricerca di archetipi generativi. Raccogliendo con questo il pensiero di Donna Haraway sul Chthulucene, era in cui la filosofa auspica incroci tra umani, vegetali e non-umani per salvare il pianeta dolente. Pertanto, il giardino può essere anche una piattaforma di sperimentazione per affrontare cambiamenti climatici con banche del seme per il futuro (Jumana Manna) o per individuare visionari sistemi di riciclaggio con biotecnologie che s’imbattono in derive psichedeliche (Heather Phillipson).

Zheng Bo, Pteridophilia 2, 2018, still da video © Zheng Bo

Zheng Bo, Pteridophilia 2, 2018, still da video © Zheng Bo

EROS ED EMOZIONI

Nell’incontro con la natura si finisce travolti anche da un climax erotico in giardini prosperosi e sessualmente appetibili per i fiorenti giovanotti di Zheng Bo. Antinomico appare il giardino di Nathalie Djurberg e Hans Berg, in cui lo spettatore è costretto a fluidi passaggi ancora tra paradiso e inferno; oppure è obbligato a oscillazioni tra piacevolezza estetica e distorsione percettiva nel giardino a pois di Yayoi Kusama. Qui, seducenti visioni pop sono ritmate da tulipani ingranditi in spiazzanti passaggi di scala.
Se si vira verso una fruizione più emotiva, il giardino offre anche un fronte speculativo per interrogarsi, per potenziare percorsi interiori (Renato Leotta), o per meditare nei tradizionali giardini zen, convertiti in installazioni da Taro Shinoda. Quando invece il giardino diventa spazio di sopravvivenza, di resistenza urbana (Futurefarmers), si aprono nuove possibilità di convivenza e di gestione dei conflitti sociali. Coltivare il proprio orto urbano, o il proprio giardino, come avrebbe detto il Candido di Voltaire, significa allora avere cura dello spazio in cui viviamo con responsabilità, per preservarlo e migliorarlo, allargando gli orizzonti e a dispetto di ogni impraticabile utopia. Come ci ricordava Agnes Heller: la modernità è il nostro giardino, all’interno del quale trovano posto il continente, lo Stato e la città dove abitiamo. Nel coltivare il nostro daremo una mano a coltivare quello degli altri.

Marilena Di Tursi

Berlino// fino al 1° dicembre 2019
Garden of Earthly Delights
GROPIUS BAU
Niederkirchnerstraße 7
www.berlinerfestspiele.de

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Marilena Di Tursi

Marilena Di Tursi

Marilena Di Tursi, giornalista e critico d'arte del Corriere del Mezzogiorno / Corriere della Sera. Collabora con la rivista Segno arte contemporanea. All'interno del sistema dell'arte contemporanea locale e nazionale ha contribuito alla realizzazione di numerosi eventi espositivi, concentrandosi soprattutto…

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