Non “contro”, semmai “per” la storia. Riflessioni architettoniche attorno a Gaza
Perché di fronte alla cancellazione di Gaza occorre più che mai parlare della battaglia per una memoria non dell’Occidente. Riceviamo e pubblichiamo questa analisi dell’architetta e ricercatrice Marialuisa Palumbo, che prende le mosse da un recente saggio

Nei giorni di una ulteriore brutale escalation della guerra di Israele per far tabula rasa di Gaza e dei suoi abitanti, la pubblicazione in Italia dell’ultimo libro del sociologo Frank Furedi, The War Against the Past. Why the West Must Fight for Its History, liberamente tradotto come La guerra contro il passato. Cancel culture e memoria storica e calorosamente accolto dalla stampa locale, mi spinge a tornare sul tema dell’attualità della storia. Non come forma di narrazione oggettiva, ma come strumento di indagine e pensiero critico, essenziale per comprendere gli squilibri strutturali (con radici antiche) del presente e, dunque, per costruire un futuro diverso. Anche nella disciplina cui (indisciplinatamente) appartengo: l’architettura.

A proposito del nuovo libro del sociologo Frank Furedi
La posizione di Furedi e dei suoi sostenitori può essere facilmente riassunta attraverso l’incipit della quarta di copertina. “È in corso una guerra contro il passato: statue abbattute, parole bandite, libri e opere d’arte messi all’indice, programmi scolastici ‘decolonizzati’. Sotto i vessilli della cancel culture e del politicamente corretto, è in atto una crociata culturale e morale che punta a riscrivere la memoria storica dell’Occidente. (…) Sfidare questa deriva, avverte Furedi, è una delle battaglie intellettuali più importanti del nostro tempo.” Che così stiano le cose non hanno dubbi né Paolo Mieli (La crociata (in atto) contro il passato, Corriere della Sera, 29 agosto), né David Bidussa (Che senso ha fare il processo al passato, Il Sole 24 Ore, 14 settembre), né Ernesto Galli della Loggia (Il passato messo all’angolo, Corriere della Sera, 19 settembre). Ma è davvero così che stanno le cose? Cosa vuol dire memoria storica “dell’Occidente”? Memoria di chi e per chi? E che relazione c’è tra tutto questo e la guerra reale d’Israele contro la Palestina? Che rapporto esiste tra queste battaglie epistemologiche e la storia e la teoria dell’architettura?

Le voci contro la cultura woke
Il legame tra queste cose è semplice e va al cuore della tesi di Furedi condivisa (oltre che da Mieli, Bidussa e Galli della Loggia) dalle tante voci che si sono levate recentemente in Italia contro la cultura woke. Nonostante la leggerezza con cui spesso se ne parla, il movimento culturale caduto sotto la luce dei riflettori nel 2020 perché infiammato dall’omicidio di George Floyd, dall’esplosione delle proteste di Black Lives Matter e dall’attacco ai monumenti confederati ed altre statue giudicate simboli di oppressione, ha radici profonde. È il risultato di decenni di uno straordinario lavoro intellettuale, globale e interdisciplinare, radicato nelle lotte dei movimenti di resistenza contro il colonialismo europeo nel mondo e in quelle per i diritti civili degli afroamericani degli Anni Sessanta negli Stati Uniti. E proprio nei campus degli Stati Uniti è cresciuto e si è consolidato grazie alla ricerca d’eccellenza ed alla apertura alle comunità in diaspora che fino a poco tempo fa li caratterizzava.
Quando negli USA le università accoglievano le comunità in diaspora
É Columbia a sostenere la ricerca dello studioso di origini palestinesi Edward Said, il cui saggio Orientalismo (del 1978, ma tradotto in italiano soltanto nel 1999) diventa ben presto una pietra miliare per discutere del rapporto tra cultura e imperialismo (titolo di un suo saggio successivo) e una lettura imprescindibile per ogni corso umanistico nelle principali università degli Stati Uniti. A Cornell e poi Columbia studia e lavora la filosofa indiana Gayatri Spivak, traduttrice della Grammatologia di Derrida e nel 1985 autrice del saggio Can the Subaltern Speak? (pubblicato qualche anno dopo), presto divenuto un’altra pietra angolare per una nuova forma di pensiero critico. A Princeton e Harvard trova casa un altro studioso indiano, Homi Bhabha, che con The Location of Culture (1994, tradotto nel 2001 come I luoghi della cultura) offre un altro pilastro al pensiero definito postcoloniale. Se gli scritti di Gramsci sulla Questione Meridionale erano stati uno dei punti di partenza per Said, la parola dello psichiatra e militante della rivoluzione algerina Frantz Fanon è una delle voci su cui Bhabha costruisce per mettere in questione la modernità da un luogo geografico ed epistemologico altro dall’Europa e dalla critica alla modernità elaborata dalla scuola di Francoforte: come appaiono la modernità e l’Occidente dal punto di vista di un contesto coloniale?
Non “contro”, ma “per” la storia
Pur non potendo citare le moltissime voci ed opere che dagli Anni Ottanta ad oggi hanno dato vita al dialogo serrato che ha rimesso profondamente in discussione il senso della modernità per restituire dignità a quella maggioranza del mondo che l’Occidente aveva sistematicamente spinto in una condizione di inferiorità, voglio ricordarne almeno alcune, essenziali per capire perché la battaglia in corso non sia certo “contro” la storia ma “per” la storia: Cedric Robinson, Audre Lorde, Stuart Hall, Paul Gilroy, Sylvia Winter, Dipesh Chakrabarty, bell hooks, Ann Laura Stoler, Walter Mignolo, Adom Getachew. Nessuno di questi autori hai mai chiesto di cancellare il passato. Tutti però hanno messo in questione la narrazione che l’Europa ne ha fatto, a partire da cosa e chi sta al centro del racconto: l’esploratore e i suoi viaggi o le popolazioni invase e cancellate? Gli stati istituiti o le popolazioni sradicate e in fuga? Le proclamazioni dei diritti o il colonialismo e la schiavitù? Quello che è in gioco, dunque, è una operazione di rilettura e recupero di ciò che è stato rimosso. Perché farlo è il primo passo per riparare le violenze e le cancellazioni di chi è stato strappato dalla sua casa e dalla sua terra, ridotto al silenzio e all’oblio. Farlo vuol dire mettere al centro quei “dannati della Terra”, come li ha definiti Fanon, che non sono soltanto le classi proletarie, ma sono coloro che sono stati definiti inferiori e barbari, l’altro dell’Occidente e del maschio bianco, gli omosessuali, i transgender, le donne. E, volendo spingerci oltre, ogni forma vivente e non vivente ridotta a cosa di fronte a un soggetto posto al di fuori e al di sopra di tutto il resto.
Cristoforo Colombo e la ferita dei nativi americani
Ecco perché l’abbattimento delle statue non rappresenta affatto un tentativo di cancellazione ma, al contrario, l’affermazione “positiva” di un diritto: quello allo spazio pubblico come luogo di espressione di valori condivisi. In un’incredibile ondata di “vita activa”, le statue contestate sono state infatti in primo luogo quelle di generali e soldati Confederati: monumenti eretti per celebrare (come eroi) coloro che, durante la Guerra Civile Americana, avevano combattuto per il mantenimento della schiavitù. Il passo dai confederati a Cristoforo Colombo è breve. Ancora oggi spesso celebrato come colui che “scoprì” le Americhe, Colombo rappresenta per i nativi americani l’inizio della fine: a seguito della sua “scoperta”, infatti, tra l’80% ed il 95% della popolazione indigena venne massacrata, una cifra stimata tra i 50 e 100 milioni di persone. Questo è il nodo della questione: chi e che cosa conta nel racconto della storia? Chi e che cosa vediamo guardando al viaggio di Colombo e quello che ne seguì, nel corso dell’epoca moderna?
Il senso della storia e della critica architettonica
Venendo dunque all’architettura, la questione diventa: qual è il fine della storia e della critica architettonica? Nata nell’ambito della storia dell’arte, la storia dell’architettura ha tradizionalmente avuto il compito di studiare e presentare opere esemplari e “maestri” da assumere come modelli. Nel 1968, muovendo da una critica marxista (lontana dalle problematiche sollevate dalle lotte anticoloniali così come da quelle per la liberazione di genere, ma impregnata della critica alla ragione illuministica), il libro Teorie e storia dell’architettura di Manfredo Tafuri, apre la strada a una storia dell’architettura pensata come strumento per smascherare le strutture del potere capitalistico. Ad innescare però una forma di critica capace di andare oltre il capitale e portare in primo piano il tema della costruzione della diversità (come alterità ed inferiorità) non è Tafuri ma Said. È Rabat: Urban Apartheid in Morocco (1980), della sociologa Janet Abu-Lughod, il primo libro ad applicare sia la critica di Said all’analisi del mondo costruito che la nozione di apartheid alla città coloniale.
Verso “nuove storie” dell’architettura
Ancora una volta non posso entrare nel dettaglio, ma posso citare (in ordine cronologico rispetto alle loro pubblicazioni, tra i primi Anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio) i nomi di Gwendolyn Wright, Zeynep Çelik, Mark Crinson, Jean-Louis Cohen. Nei loro lavori la storia dell’architettura comincia ad assumere un ruolo nuovo, ruolo che più chiaro e forte diventerà nella generazione successiva. L’obiettivo delle “nuove storie” infatti sarà sempre meno quello di individuare capolavori e maestri, e sempre di più quello di usare le trasformazioni del paesaggio costruito o immaginato per smascherare logiche, strumenti e metodi di sopraffazione, occupazione, violenza razziale o di genere o, al contrario, tattiche e pratiche di resistenza e di lotta. Abbandonando i recinti disciplinari, la storia dell’architettura piega così gli strumenti della disciplina (l’analisi del costruito, la capacità di lettura del progetto, di disegni e fotografie) per contribuire a una storia più grande, di cui comunità ed ecosistemi diventano il centro.
La formazione dello Stato di Israele e il concetto di “spaziocidio”
In queste nuove storie, un ruolo importante è certamente occupato dall’analisi del ruolo che l’architettura e la pianificazione hanno svolto nella formazione dello Stato di Israele in quella che, da questo punto di osservazione, appare inequivocabilmente come il risultato di una nuova violenza coloniale. Una terra abitata da migliaia di anni da comunità con etnie, lingue e religioni differenti viene attribuita a una comunità per la formazione di uno stato che predica l’omogeneità etnica e religiosa e che, sotto la protezione dell’Occidente, pratica immediatamente l’occupazione di altre terre. Tra i volumi che voglio segnalare, oltre al ben noto Hollow Land: Israel’s Architecture of Occupation (2007) di Eyal Weizman (recentemente tradotto col titolo Spaziocidio. Israele e l’architettura come strumento di controllo), lo straordinario volume fotografico From Palestine to Israel: A Photographic Record of Destruction and State Formation, 1947-1950 (2011) di Ariella Azoulay e il recentissimo A Territory in Conflict: Eras of Development and Urban Architecture in Gaza (2025) di Fatina Abreek-Zubiedat.
La necessità di riconoscere la dimensione sociale e politica dell’architettura
Scorrendo le pagine del libro si incontrano le immagini della regista e accademica ebrea-palestinese Azoulay che, attraverso fotografie tratte dagli archivi di Stato di Israele, ripercorre la “violenza costituente” (la violenza usata per creare il diritto, secondo la definizione di Walter Benjamin) perpetrata dalla leadership militare e politica ebraica tra il 1947 e il 1950, all’indomani dell’approvazione del Piano di partizione elaborato dalle Nazioni Unite e dalla leadership sionista. Le fotografie documentano il processo di sistematica conquista armata di centinaia di villaggi palestinesi, la loro distruzione o appropriazione, e l’espulsione della popolazione in quell’esodo forzato che i palestinesi chiamarono Nakba (la catastrofe).
La battaglia portata avanti dagli intellettuali, che in tutti i campi del sapere hanno adottato il punto di vista delle terre e delle comunità occupate, sottomesse e violate, per portare alla luce le loro storie e costruire forme di conoscenza nuova, non è contro il passato, ma per il passato e, certamente, per il futuro. Per questo il limite tra storia e teoria dell’architettura è, come sempre, quanto mai sottile: studiare e leggere le nuove storie dell’architettura significa imparare a vedere in modo diverso, riconoscendo innanzitutto la dimensione sociale e politica dell’architettura.
Marialuisa Palumbo
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