Tutti pronti per il MAAT di Lisbona. Parola al direttore Pedro Gadanho

A Lisbona, l’apertura ufficiale della longilinea duna splendente di Amanda Levete sarà a ottobre, ma a fine giugno ha inaugurato la mostra “Lightopia”, che anticipa alcune tematiche dei futuri programmi culturali del nuovo museo. In attesa della grande inaugurazione…

In occasione di Arco Madrid, l’architetto, scrittore e curatore Pedro Gadanho aveva annunciato l’apertura, a ottobre 2016, di uno dei musei più eleganti di tutta Europa, nel distretto di Belèm, a qualche chilometro da Lisbona: il MAAT – Museo di Arte, Architettura e Tecnologia, firmato dall’inglese Amanda Levete. Dal 29 giugno gli edifici preesistenti ospitano intanto Lightopia, una mostra sulla luce e la contemporaneità, in coproduzione con il Vitra Design Museum, nonché Second Nature, una panoramica sulla collezione d’arte della EDP Foundation, la fondazione privata che supporta, da anni, il progetto. In questa intervista Gadanho anticipa alcuni aspetti del nuovo museo.

Rispetto ai programmi futuri che il MAAT intende perseguire – tra tecnologia, architettura e arte contemporanea –, il progetto di Amanda Levete quali caratteristiche rispecchia?
L’edificio, in realtà, è venuto prima, mentre la definizione finale di quel che il museo avrebbe dovuto diventare è stata formulata successivamente. Uno dei motivi per il quale l’architettura è entrata all’interno della discipline sulle quali il MAAT farà ricerca è legato alla costruzione di una nuova estensione di Central Tejo, la stazione energetica attualmente esistente. Anche questo è stato un progetto-chiave, che ben rappresenta il linguaggio formale dell’architettura del XXI secolo. E dal momento che ci appartiene, in termini di eredità industriale, una delle più belle e ben tenute centrali elettriche risalenti all’inizio del XX secolo, è un dato di fatto che l’architettura sia sempre stato un bene fondamentale per il museo. Ovviamente, sin dal primo momento in cui sono stato incaricato di dirigere il museo, la mia formazione nel campo dell’architettura ha influenzato quelle che definisco “intersezioni” con il mondo dell’arte. Ritengo che le connessioni tra arte, architettura e tecnologia indaghino naturalmente la storia dell’edificio principale che è il Central Tejo, oggi simbolo di produzione di energia metaforica, scientifica ed estetica. I suoi muri di mattoni fanno parte integrante della nostra identità, rendendo la combinazione di discipline in gioco un’eccezione nel panorama dei musei. Ovviamente ci sono già musei in Europa che lavorano su arte, architettura e tecnologia, ma nessuno ha interi dipartimenti di ricerca che si interconnettono fin dal principio, nei quali gli artisti sono chiamati a lavorare per comporre un ritratto della cultura urbana e del suo impatto sulle nostre vite.

MAAT, Lisbona - ©AL_A

MAAT, Lisbona – ©AL_A

Potresti rivelare i costi dell’intera, nuova, progettazione? E i tempi di realizzazione?
Il nuovo spazio di Amanda Levete ha necessitato di un cantiere che è durato quattro anni, risultato di un periodo di cinque-sette anni di incubazione, durante i quali il concept è stato sviluppato. Per quanto riguarda i costi non ho i dati precisi, ma lo sforzo è stato enorme: decine di milioni di euro, solo per costruire la nuova struttura. Un capitale che arriva da una fondazione privata, EDP Foundation, che sta lavorando per sostenere anche i programmi futuri del museo. L’obiettivo è l’investimento nella scienza e nelle arti, garantendo 40 milioni di euro di budget l’anno. Questo è un dato per me molto rilevante: non deve far notizia il denaro che si investe in un progetto, quanto, piuttosto, il calcolo di poter supportare quella visione nel lungo periodo, garantendo continuità per il futuro.

Quale legame, anche metaforico e ideale, viene mantenuto con gli edifici industriali preesistenti?
Le piastrelle, le maioliche che si mostreranno in superficie nel nuovo MAAT creano, ovviamente, con Central Tejo un puro contrasto: sia a livello di riflesso della luce sia di capacità di trattenere la luce. Ma se si pensa alla tradizione degli azulejos, allora i mosaici produrranno una sorta di continuità con l’intera città, con la storia stessa di Lisbona. Inoltre le forme sinuose e allungate daranno vita a un nuovo, inaspettato punto di riferimento tra i volumi squadrati e composti del distretto.

Carlos Cruz-Diez, Chromosaturation, 1965-2010 © ADAGP, Paris 2016

Carlos Cruz-Diez, Chromosaturation, 1965-2010 © ADAGP, Paris 2016

A tuo modo di vedere, in quale modo, in Portogallo, la crisi ha influito sulla fruizione degli spazi espositivi da parte del pubblico?
Le principali istituzioni culturali, in Portogallo, sono pubbliche e gestite dallo Stato, eccetto la Fondazione Gulbenkian: tutti hanno sofferto moltissimo. In Europa, mediamente, si calcola che i supporti dedicati alla cultura abbiano subito circa il 30% di tagli, inclusi i Paesi Bassi e la Francia, mentre l’economia complessiva ha contratto gli scambi sul mercato, più o meno, del 10%. Il grosso danno è stato avvertito in termini di insicurezza e di incapacità di poter fare programmi, di promuoverli correttamente e di coinvolgere con continuità i diversi pubblici di riferimento. Siamo stati vittime di restrizioni nella possibilità di progettare mostre e concepire contenuti a lungo termine. Qualche anno fa, le mostre duravano sempre a lungo, le stanze dei musei chiudevano e questo ha influito molto sulla percezione, da parte del pubblico, di diverse sedi espositive. Il museo che stiamo costruendo è finanziato da una fondazione la quale fa capo a una compagnia la quale, a sua volta, rivolge i propri investimenti e le proprie visioni alla società: si sta producendo un modello virtuoso per il Portogallo e si sta creando nuovo dinamismo nel campo della cultura. Solo una gestione così può garantire visibilità su diverse piattaforme internazionali.

Al MAAT quali tipi di servizi che possano attrarre visitatori e creare gettito in entrata proporrete? Al fine di creare una minima economia di sussistenza per la struttura…
Ci sarà un ristorante, con un panorama meraviglioso sul fiume: sarà un punto di incontro privilegiato che potrà generare e attrarre nuovi pubblici. Inoltre si dovrebbe investire in un programma di membership per attrarre visitatori e fidelizzarne le aspettative, non tanto per produrre entrate in termini fiscali. Noi vorremmo che la gente tornasse più e più volte, per questo stiamo ponendo il prezzo d’ingresso al minimo (9 euro), livellandolo alla media europea, di modo che anche gli stranieri non siano impressionati da differenze di costo. La crisi, inoltre, è anche nei confronti dell’arte contemporanea in sé, perché viene percepita come astratta, difficile e distante. Dunque bisognerebbe, anche attraverso programmi educational, coinvolgere e avvicinare i pensieri delle persone che si sentono disconnesse dalle tematiche dell’arte contemporanea.

Olafur Eliasson, Starbrick, 2009 © 2009 Olafur Eliasson und Zumtobel

Olafur Eliasson, Starbrick, 2009 © 2009 Olafur Eliasson und Zumtobel

Come si collega il MAAT agli altri musei già attivi sul territorio portoghese? Sarà possibile creare un network?
Belém è un quartiere che offre numerose attrazioni ai turisti: sono già in atto sinergie con altri musei come il Museu Berardo e il Museu Nacional dos Coches, disegnato da Paulo Mendes da Rocha, così come con le visite ai numerosi monumenti della zona. Cercheremo di implementare programmi complementari rispetto alle identità locali, con l’intenzione di dar vita a sincronizzazioni di contenuti, tra la storia e la nostra contemporaneità: tracce del tempo molto diverse tra loro.

Tra Lightopia – frutto di una preziosa collaborazione con il Vitra Design Museum – che inaugura il 29 giugno e la mostra che inaugurerà al MAAT il 5 ottobre, dal titolo Utopia/Distopia, sembra che il tuo sguardo abbia voluto indicare l’urgenza, da parte di arte, tecnologia e architettura di dover ridefinire il concetto di topos
Le tematiche che affronteremo si rivolgeranno, in realtà, all’analisi di un senso di trasferimento, di evacuazione, di rimozione più che di ridefinizione di un luogo. E la mostra Utopia/Distopia di Dominique Gonzalez-Foerster, da questo punto di vista è perfettamente centrata. Il termine distopia, all’origine del suo utilizzo, assumeva il significativo proiettivo di futuri bui e incerti, ma adesso è diventato un termine molto usato. Questo fatto potrebbe rappresentare un nuovo punto critico per far scattare migliori soluzioni, ulteriori pensieri nei nostri futuri visitatori.

Ginevra Bria

www.maat.pt

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Ginevra Bria

Ginevra Bria

Ginevra Bria è critico d’arte e curatore di Isisuf – Istituto Internazionale di Studi sul Futurismo di Milano. È specializzata in arte contemporanea latinoamericana.

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