Biennale di Architettura. L’opinione di Francesco Napolitano
Cosa unisce e cosa divide la mostra curata da Alejandro Aravena dalle edizioni di Rem Koolhaas e David Chipperfield? Cosa aspettarsi per gli anni a venire? Il punto di vista di un architetto.
UN’IMMAGINE GUIDA
Con la bellissima immagine della locandina della Biennale di Architettura del 2016, Alejandro Aravena vuole raccontarci una storia e forse darci un consiglio: “Durante un suo viaggio in America del sud, Bruce Chatwin incontrò un’anziana signora che camminava nel deserto trasportando una scala di alluminio sulle spalle. Era l’archeologa Maria Reiche, che studiava le linee di Nazca. A guardarle stando con i piedi appoggiati al suolo, le pietre non avevano alcun senso, sembravano soltanto banali sassi. Ma dall’alto nella scala, le pietre si trasformavano in uccelli, giaguari, alberi o fiori“.
Invece di commentare la mostra o le architetture in essa contenute, vorrei provare a seguire il consiglio di Aravena: vorrei guardare la Biennale da un po’ più in alto, cercando di capire quali linee legano questa mostra alle precedenti Biennali di Architettura, in particolare a quelle del 2012 e del 2014.
DA ‘ABSORBING MODERNITY’ A ‘REPORTING FROM THE FRONT’
Al contrario della Biennale diretta da Rem Koolhaas, nella quale le partecipazioni nazionali erano chiamate a rispondere al tema comune Absorbing Modernity, quest’anno i direttori dei padiglioni nazionali non dovevano necessariamente riferirsi al tema Reporting from the front, stabilito da Aravena. Non dovevano ma lo hanno fatto in molti: sicuramente lo hanno fatto i migliori padiglioni tra i quali vale la pena di citare la Spagna, la Germania e l’Italia.
Questo è un dato importante per almeno due ragioni: in primis perché significa che il tema di Aravena rappresenta davvero un’urgenza, tanto che molti hanno sentito l’esigenza di seguirlo e di guardare l’architettura da un punto di vista diverso, come fa Maria Reiche.
In secondo luogo questa risposta unitaria sottolinea il fatto che Koolhaas aveva avuto ragione nel voler identificare un tema comune anche per i padiglioni nazionali, che altrimenti rischiano di determinare una mostra troppo eterogenea o scollegata. Con le ultime due (forse tre) biennali si è in qualche modo stabilito che mostrare i migliori risultati architettonici o riferire sullo stato dell’arte della disciplina in un determinato paese non è più abbastanza. La Biennale, emancipandosi dal ruolo di mero raccoglitore, tende a diventare – o ritornare a essere – un osservatorio più interessante, un meccanismo di identificazione dei problemi più urgenti ai quali l’architettura contemporanea è chiamata a rispondere e quindi una mostra delle possibili soluzioni su tutto il territorio del pianeta.
QUALI INDIRIZZI PER IL FUTURO?
D’altra parte è giusto aspettarsi che la Biennale non sia soltanto uno specchio dell’attualità, ma che abbia anche un ruolo di rivelazione o indirizzo sui futuri sviluppi dell’architettura contemporanea. Tanto più i prossimi direttori sapranno scegliere, come Aravena, temi urgenti e condivisi, tanto più chiaramente potremo un domani leggere la Storia dell’Architettura anche attraverso la storia delle Biennali.
Nell’anno della morte di Zaha Hadid, nell’anno in chi il testimone del premio Pritzker passa a questo grande architetto cileno, sembra di assistere al tramonto di un modo di intendere e di praticare l’architettura. Così anche la Biennale si lascia alle spalle le costose scenografie delle mostre passate per proporre un allestimento che ricicla i pezzi di scarto delle precedenti edizioni; abbandona l’esposizione dei grandi – e costosissimi – risultati ottenuti dalle archistar e si concentra sulla ricerca di quel Common Ground che già David Chipperfield aveva cercato nella sua biennale del 2012, senza trovarlo; il suo tentativo fu generoso, ma i tempi non erano ancora maturi.
Alejandro Aravena ha saputo dire molto chiaramente che il territorio comune è il “fronte”, e cioè l’architettura volta alle epocali emergenze sociali e politiche della contemporaneità, come anche la battaglia quotidiana che tutti noi architetti combattiamo o qualunque altra cosa esso rappresenti. Perché il fronte è diverso per ogni paese e per ogni architetto, ma è comune a tutti.
Francesco Napolitano
www.labiennale.org/it/architettura/
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