Didascalie museali. Domande, non risposte

Secondo intervento dedicato alle didascalie. Un aspetto marginale del museo e a maggior ragione dell’arte? Non esattamente. E un’esperta ci spiega perché.

VENGONO PRIMA LE DOMANDE
Sto visitando la mostra di un famoso scultore dei primi del Novecento, di cui un mio amico è discendente. Camminando nelle sale trovo una scultura che mi colpisce molto, scatto una foto e gliela spedisco. “Ah!”, risponde lui, “pensa che l’ha realizzata usando un lavabo; non aveva soldi per comprare il marmo e ha trasformato quello che aveva”.
E allora si apre un mondo: lo scultore, pur molto noto e oggi quasi oggetto di culto, in quel momento era povero; in quel lavabo lavava forse i panni, dunque dove li avrà lavati da quel momento in poi? E la verdura? Che cosa ne avrà pensato la moglie? E tu, come ti organizzi quando hai una buona idea ma non hai soldi o tempo o materia prima per realizzarla? Che cosa trasformi? Che cosa sei disposto a sradicare, a sacrificare?
Questa sarebbe stata la mia didascalia: piena di punti di domanda.

QUANDO L’ORACOLO NON RISPONDE PIÙ
Siamo cresciuti, come visitatori, pensando che la didascalia fosse il quantum minimo di mediazione necessario, una sorta di carta di identità dell’opera o dell’oggetto, nuda e cruda, insindacabile. Ma a forza di visitare musei, e soprattutto a seguito della loro trasformazione in un’ottica inclusiva, dialogante, partecipativa, abbiamo capito che non basta: perché le attribuzioni cambiano, come il gusto, l’allestimento, i proprietari, le interpretazioni, i collegamenti all’interno di una collezione, quelli con altre collezioni del territorio, in una matrioska potenzialmente infinita. Cambiano i direttori, i curatori, i restauratori, e anche i sindaci e i presidenti. Cambiano i visitatori: di che nazionalità sono? Quante lingue parlano? Sono bambini, sono cresciuti, sono diventati anziani? E a proposito: ci vedono bene, o sarà meglio aumentare la dimensione del carattere?
È banale ma va ancora una volta sottolineato. La leggibilità fisica della didascalia è fondamentale: la scelta della font, la dimensione, l’impaginazione del testo con una corretta gerarchizzazione e organizzazione visiva dei contenuti, e infine la collocazione fisica della didascalia

Hans Hollein, The imaginary Museum, 1987 Documenta

Hans Hollein, The imaginary Museum, 1987 Documenta

FRA DUBBI E VOCI MOLTEPLICI
Dunque, le strade per sottrarsi a una presunta oggettività (senza cadere nel tranello del bambinesco o del giocherellone) sono molteplici. Due sono le principali: la didascalia soggettiva, dubitativa, “provvisoria”, indice di un pensiero in progressione (che sia del singolo curatore o del museo nel suo insieme), e quella multivocale, quella cioè che accoglie punti di vista diversi su un solo supporto, dando conto di un dibattito che può essere culturale, ma anche politico e sociale.
Entrambe sono uno statement del museo, perché sappiamo – ce lo dicono i visitors studies – che si vorrebbe uscire dal museo con delle certezze, si vorrebbe sentire di aver “imparato” dal punto di vista mnemonico e fattuale più che da quello delle competenze o life skills (ma imparato che cosa? Le date? I supporti? I titoli a memoria?). Da qui discende il successo della sempreverde formula visita-guidata-tipo-maratona-per-gruppi-sfiniti. Ma i musei sanno altrettanto bene che i visitatori, messi in condizione di riflettere, si avvantaggiano enormemente del dialogo, del botta e risposta con l’istituzione, della messa in discussione del proprio punto di vista.
A questo proposito, va sviluppata una riflessione molto più approfondita sulla diversità dei pubblici: sul fatto che siamo società complesse in cui tutti devono sentirsi presi in conto, e nessuno deve sentirsi stupido solo perché non riesce a decodificare testi lunghi dieci righe senza neanche un “a capo”.

Yoko Ono, Cloud Piece, 1963

Yoko Ono, Cloud Piece, 1963

DIDASCALIA COME INTERPRETAZIONE
Come può una didascalia parlare a un pubblico multietnico, con conoscenze e competenze varie, con background ed età diversi? Ci sono diverse esperienze interessanti: si va dalle didascalie scritte a più mani, che sovrappongono diversi livelli di interpretazione (Santa Cruz Museum, V&A Museum of Childhood…) a quelle in cui si incoraggiano i visitatori a scrivere la loro didascalia (Walker Art Gallery a Liverpool, Whipple Museum a Cambrige e numerosi altri).
Molti musei hanno deciso di sostituire le didascalie con delle brochure – è il caso dell’HangarBicocca a Milano o di diverse mostre temporanee del MoMA – ma anche da paesaggi sonori, come in alcune sezioni dell’Imperial War Museum di Londra, o da tablet, come al Worchester Art Museum, Massachussets, o alla Cyrus Tang Hall of China del Field Museum di Los Angeles.
Comunque si decida di procedere, più che mai è importante la consapevolezza del compito interpretativo della didascalia: l’interpretazione, per quanto tautologico possa sembrare, è la vera protagonista di questa stagione della museologia. Di nuovo, si potrebbero fare tanti esempi dell’attuale rivoluzione copernicana, che prende sul serio la diversità e la maggiore consapevolezza culturale dei pubblici e che ritocca il linguaggio entro una più generale rilettura del proprio statuto. Molto noto è il progetto Adjustment of Colonial Terminology del Rjiksmuseum di Amsterdam, che ha espunto dal catalogo e dalle descrizioni in museo i termini oggi avvertiti come razzisti. Le parole possono avere pesanti ripercussioni: è il caso delle opere della collezione di Bill Cosby esposte alla mostra Conversations: African and African American Artworks in Dialogue allo Smithsonian’s National Museum of African Art di Washington nel 2014.

Meriç Algün Ringborg, The Risk of Being In Public, 2011

Meriç Algün Ringborg, The Risk of Being In Public, 2011

A CHI STIAMO PARLANDO?
Tenendo fissa l’attenzione sulla connotazione che le parole possono rivestire in società multiculturali, postcoloniali, conflittuali, in ogni caso non si può eludere la questione della chiarezza e della precisione del linguaggio (che non significa banalizzare, al contrario). Ma quando vi è rimasta in mente una didascalia perché ben fatta? A me è successo solo con le prime realizzate alla Tate Modern, quando aprì nel 2000: argomentative, né troppo lunghe né troppo corte, capaci di esplicitare la scelta curatoriale, di dire “abbiamo deciso così”, esplicitando l’autorialità ma anche l’assunzione di responsabilità.
Molto più spesso, invece, esco dai musei avvilita: penso alla mostra sui vulcani al Museo di Storia Naturale di Milano, dove le didascalie parlano, si direbbe, solo ai vulcanologi e a chi regge aggettivi endecasillabi (ed è chiaramente una mostra per bambini). Ma penso anche a tutte quelle che non insegnano nulla: il Ritratto di Innocenzo Massimino di Boccioni, spiegato così non dice nulla. Chi era? Un amico, solo un committente? Che rapporto c’era fra loro, come si sono conosciuti? E il ritratto della moglie, più noto, che relazione ha con questo?
Il male è banale: le mostre sono curate da specialisti della disciplina, e nello staff museale non c’è nessuno che abbia potuto dedicare tempo al problema, con il tempo, la calma (e la capacità) di sperimentare, far leggere ai colleghi, rimetter mano ai testi, sottoporre ad occhi esterni, e così via, in un via-vai che richiede molta dedizione e un grande investimento.
Colpisce la sproporzione fra gli studi teorici disponibili in ambito anglosassone e la riflessione italiana. Progettando il corso Senza titolo, che si svolgerà a Milano dal 4 all’8 maggio, abbiamo voluto provare a mettere il tema sotto la lente di ingrandimento coinvolgendo professionisti che con taglio diverso aiutino a fare il punto, raccontino esperienze di prima mano, problematizzino, indichino strade possibili.

Anna Chiara Cimoli

www.spaziobk.com/senza-titolo

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Anna Chiara Cimoli

Anna Chiara Cimoli

Anna Chiara Cimoli è una storica dell’arte e consulente museale. Specializzata in museologia all’Ecole du Louvre, ha lavorato per dieci anni al Politecnico di Milano, e successivamente alla Fondazione Arnaldo Pomodoro e presso la casa editrice FMR-Art’è. Dal 2001 collabora…

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