Hans-Ulrich Obrist. L’essere (post)umano

È il padiglione nazionale più atteso della 14. Biennale di Architettura, quello della Svizzera. Si intitola “Lucius Burckhardt and Cedric Price - A Stroll through a fun palace” e a curarlo è Hans-Ulrich Obrist. Qui trovate un ritratto del curatore più iperattivo del pianeta. Lo ha scritto Gianluigi Ricuperati ed è un estratto della postfazione del libro “Fare una mostra” dello stesso Obrist, appena uscito in Italia per i tipi di Utet e che sarà presentato al padiglione il 6 giugno.

Conosco Hans-Ulrich Obrist dal 2004, e prima, camminandoci insieme nelle numerose tappe dell’intenso circo globale dell’arte, gli sguardi verso di lui erano lievemente diversi. C’era ammirazione, sì, talvolta distanza o un’ombra di sospetto, molto più spesso rispetto e camaraderie. Ora c’è lo sguardo zoologico ed evolutivo degli animali che si trovano di fronte a una creatura-trampolino, colui che può farti svoltare: Obrist è diventato un assetto possibile della fortuna di tutti i galleristi, i direttori, i curatori, i giornalisti e i critici, e in ultimo gli artisti, che stanno a questo sistema come i calciatori al cosmo del calcio, imprescindibili ma ben lontani dalle leve decisionali. “Il potere non conta in sé. Conta perché ti permette di fare tutto con una libertà che prima non c’era”.
Tra gli Anni Novanta e il 2000 Obrist è cresciuto come una cometa nella più ampia cometa del boom del sistema dell’arte: un fenomeno solido, dai modi cordiali e dal ritmo di lavoro imperterrito, dormendo sui treni o più spesso non dormendo affatto (“il sonno è sopravvalutato”, recita uno dei suoi sms-mantra, inviati alle tre di notte, subito dopo “non dormire”, ripetuto due o tre volte, e il classico “sono molto preoccupato: sei un serial sleeper”), inghiottendo cibo solo quando gli zuccheri stanno per togliere il loro tappo di energia alla chimica voglia di conoscenza che anima il titolare di quel corpo alto, pallido, di anno in anno più stempiato e grigio, di anno in anno più ligio e determinato nella sua osservanza. Sì, perché “dobbiamo essere come monaci: la mia prima esperienza culturale forte è stato lo shock di visitare più volte la biblioteca di un monastero, in Svizzera”.
Sono su un aereo con Hans perché quest’uomo merita di essere raccontato, e il modo più quieto per applicare una seria narratività alla sua insostenibile vitalità è fare tutti i viaggi necessari, nei tunnel a ossigeno limitato che attraversano i cieli di questo nostro mondo fatto di bisogni e impulsi che diventano finanza, finanza che diventa spostamenti, spostamenti che mutano in tragedie e commedie, in un vortice di varianti complesse mai sperimentato nella storia umana.

Hans Ulrich Obrist - foto Bruno Zhu

Hans Ulrich Obrist – foto Bruno Zhu

Obrist non è importante per gli artisti che ha promosso, tra i quali tuttavia si annoverano quasi tutti i classici di domani: Matthew Barney, Philippe Parreno, Carsten Höller, Dominique Gonzalez-Foerster, Douglas Gordon, Rirkrit Tiravanija, solo per citarne alcuni. L’arte conta, ma il tempo conta più dell’arte, e Obrist ha incarnato nella sua particolare esistenza alcuni paradigmi fondanti del nostro tempo e forse di quello a venire. “Non temere il proprio tempo / è un problema di spazio”, cantava qualche anno fa uno dei poeti della canzone italiana, Giovanni Lindo-Ferretti. Sembra un sunto di tutti i suoi spostamenti, di tutti gli slittamenti disciplinari che lo portano a essere curioso di qualsiasi cosa valga la pena; di tutte le volte che ha formulato la sua domanda conclusiva di ogni intervista: “Lei ha un progetto non realizzato?”. Perché dal suo lavoro – che pure non è sempre stato esente da difetti, eccessi, superficialità – emerge il senso definitivo di qualsiasi esperienza intellettuale significativa: la produzione di conoscenza costante, l’accensione di una nuova idea per ogni minuto che passa.
Nel mezzo di una conversazione ininterrotta Obrist ti può rispondere con frasi come “È tutto appena cominciato”, oppure “Questa è propaganda”, o anche “Oh, Gary Cooper!”. Sono titoli, spezzoni di performance, parole d’ordine appartenenti ad altri linguaggi – Obrist è una macchina postmoderna perfettamente oliata, ma è proprio la velocità a fare la differenza. “La mia vita è cambiata nel 1989, quando sono andato a trovare Alighiero Boetti. Lui mi ha scritto una delle sue cartoline, e sul retro c’era questa frase, ‘velocità quasi zero’. Avevo circa vent’anni, e mi sembrava un invito chiaro ad aumentare la rapidità di tutto, a non fermarmi mai. Ecco perché poi ho intitolato uno dei miei libri ‘Don’t stop don’t stop don’t stop’”.

Autofahrerspaziergang

Autofahrerspaziergang

Obrist non produce conoscenza da solo: proverbiali sono le maratone di interviste in cui decine di intellettuali, riuniti per disciplina o comunanza geografica, si sottopongono a estenuanti sessioni di domande, alla presenza di un pubblico che partecipa per 24 ore di seguito a riti collettivi entusiasmanti. Ci sono state maratone a Londra, in Germania, negli Emirati Arabi, in Italia – e una perfino ad Atene, paradosso filologico, con tutti i principali protagonisti della cultura greca di oggi. Obrist è un’antenna sintonizzata sull’eccitazione mentale distribuita in modo caotico nei cinque continenti: l’eccitazione di immaginare un nuovo percorso espositivo, di concepire una nuova formula, di terminare un’opera, un romanzo o un grande edificio. L’eccitazione di pensare qualcosa che nessuno, o pochissimi, hanno pensato prima. Obrist è diventato molto più che l’ennesimo curatore, l’ennesimo direttore di museo. Da quando è adolescente viaggia in ogni angolo del mondo per captare i visionari, i radicali, gli innovatori e i cercatori più strenui, quelli di ieri che adesso hanno novant’anni, quelli di domani che adesso non conosce nessuno, quelli di oggi che stanno sul trono della fama: scienziati alla conferenza del clima di Copenhagen, i creativi della Nuova Cina, gli architetti metabolisti in Giappone. Raccontare Obrist significa mettere in scena un modo inaudito, ossessivo, circolare, di portare sulla propria schiena il peso delle idee altrui. Se la sua vita fosse un titolo, sarebbe: Io sono tutti.
Chiede un altro caffè. Lo fa con un sorriso che sembra un atto di dolce isteria, e un gesto delle braccia disarticolato – l’apertura di credito di un bambino iperdotato al resto del mondo. Intanto l’aereo sobbalza. In un italiano babelico, “potrebbe essere la nostra ultima conversazione, drama, drama, turbolenza temibile”, ma detto da uno che vola come altri accendono l’auto la mattina, suona come una messinscena, una specie di prova orchestrale per l’accordatura di nuove idee, di nuove associazioni, di nuovi percorsi da snocciolare nella conversazione ininterrotta.

Hans Ulrich Obrist

Hans Ulrich Obrist

Accende il computer. Passa un libro su Harald Szeeman, suo grande maestro. Smanetta sullo schermo: chiude finestre e programmi di posta. S’intravedono mail ricevute da Rem Koolhaas, dallo studio di Yoko Ono, da Damien Hirst e da Enrique Vila-Matas, un romanziere, due artisti, un architetto, almeno tre icone nel breve spazio di uno sguardo rapito alla sua corrispondenza. Un famoso video che lo riguarda s’intitola The curator is present. The artist is absent. Si trova facilmente su Youtube. Gliel’ha dedicato Marina Abramovic: indossa gli occhiali di Hans-Ulrich, inizia una salmodia di aggettivi, prima scanditi poi rapidissimi, ma sempre con quel suo timbro balcanico e le pupille ipnotiche. Hans Ulrich è veloce. Insonne. Infaticabile. Curioso. Enciclopedico. Avventuroso. Ossessionato. Posseduto. Maratoneta olimpico dell’arte. Vulcanico. Sorprendente. Amante dell’arte. Esploratore. Pieno di medicine. Catalizzatore. Intervistatore senza fine. Ossessionato dai libri. Hans-Ulrich è un essere umano.
Curare una mostra è importante, ma altrettanto importante è curare i modi di essere umani. Hans-Ulrich Obrist, allo stesso tempo anarca gentile e consumato insider, intelligenza superba e levità di superficie, controllo e bulimia, spontaneità e diplomazia, coraggio e ipocondria, è uno dei pochi personaggi riusciti ancora capace di comprendere l’arco integrale della sottigliezza e della debolezza umane: dell’essere-umani-oggi incarna tutti i sintomi, molte malattie, e alcune medicine vivaci. E se glielo chiedete, sarà sempre in grado di ricordarvi tutto.

Gianluigi Ricuperati

http://www.labiennale.org/it/architettura/mostra/

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #19

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Il 5 e 6 giugno, nel Padiglione della Svizzera ai Giardini della Biennale, va in scena una delle “maratone” di Obrist: a parlare in un flusso continuo ci saranno, fra gli altri, Tino Sehgal, Amos Gitai, Rem Koolhaas, Philippe Parreno, Peter Fischli. La diretta sarà visibile anche in streaming su www.funpalace.ch.

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