“Alpi Apuane distrutte? Un luogo comune”. Il direttore dell’Associazione Industriali Massa Carrara risponde ad Artribune

Una situazione paesaggistica disastrosa, un situazione economico-sociale altrettanto complicata. Alle Alpi Apuane il nostro Fabrizio Federici ha dedicato due articoli. Il secondo, in particolare, parlava di cave. E pronta è giunta la risposta di Andrea Balestri, direttore dell’Associazione Industriali Massa Carrara. La pubblichiamo qui di seguito, insieme alla controreplica dello stesso Federici.

Fabrizio Federici, nel suo affresco sulla “distruzione delle Alpi Apuane”, usa indistintamente ricostruzioni storiche e una serie di luoghi comuni alimentando quell’insieme di cose non vere che spesso si raccontano sul mondo del marmo di Carrara e delle Apuane. Due, in particolare, i concetti che, per il semplice fatto di essere ripetuti, non ne fanno verità o strumenti utili per conoscere lo stato delle cose: l’idea che vi sia una attività dedita a scavare marmo per ricavarne carbonato di calcio e l’inconciliabile “trade off” tra cave e paesaggio.
L’attività delle cave, nel distretto di Carrara come in tutti i bacini estrattivi, insieme ai blocchi usati per le sculture o per l’architettura, produce una serie di sottoprodotti: scaglie, sassi, terre. Nelle cave di materiali calcarei (in tutto il mondo!) generalmente il rapporto è di 3-4 tonnellate di scarti per ogni tonnellata di pietre ornamentali. Per secoli le grandi quantità di sassi prodotti nell’escavazione delle Alpi Apuane (compresi quelli dei tempi di Michelangelo e del Canova) sono state semplicemente riversate nei “ravaneti”; solo nel secondo dopoguerra alcune imprese hanno iniziato a valorizzare questi estesi giacimenti per ricavarne carbonato di calcio utilizzato nella produzione di vernici, stucchi e detergenti. Ancora nei primi Anni Sessanta si riusciva a riutilizzarne solo il 10%; gradualmente si è ampliato lo spettro degli impieghi nella produzione di materie plastiche, malte per l’edilizia, cemento ecc. Un impulso all’affermazione di un settore ausiliario al marmo dedito al recupero dei sottoprodotti viene dal boom dei pavimenti di graniglia per i quali i sassi delle cave sono appositamente trasformati in granulati. Il ciclo del recupero dei sottoprodotti nelle cave si chiude con l’insediamento nel territorio (Anni Ottanta) di due grandi gruppi specializzati nella produzione di carbonato di calcio per le cartiere.
La storia del settore del recupero dei sassi nei bacini marmiferi delle Apuane costituisce un caso di valorizzazione di materiali che altrimenti costituirebbero a tutti gli effetti una massa di rifiuti. I sassi recuperati, inoltre, concorrono a dare consistenza all’offerta complessiva di materiali per usi industriali e inerti della Regione Toscana; se invece di essere recuperati questi fossero lasciati nei ravaneti, si dovrebbero autorizzare appositamente attività estrattive in altri siti. La pubblica opinione, tuttavia, fatica ad accettare l’idea che una parte consistente delle masse estratte sia utilizzata in applicazioni che non sono “ornamentali” ma industriali; in questo senso ci si imbatte spesso in accuse per cui i giacimenti marmiferi tanto cari a Michelangelo sarebbero sfruttati per ottenerne carbonati di calcio. In realtà i sassi e i loro derivati (polveri, granulati) costituiscono rigorosamente un sottoprodotto; le cave di Carrara e di Massa, infatti, sono autorizzate a estrarre esclusivamente materiali ornamentali (blocchi) e nessuna impresa ha interesse a produrre deliberatamente sassi, perché i costi per ottenerli sarebbero sensibilmente superiori ai ricavi. Nessuno, davvero nessuno, estrae marmo dalle Apuane per ricavarne carbonato di calcio!

Luigi Presicce, La dottrina unica, 2011 - performance per soli due spettatori - Cava Henraux, Parco delle Alpi Apuane (Massa Carrara) - photo Vanni Bassetti - courtesy l’artista e Galleria Bianconi, Milano

Luigi Presicce, La dottrina unica, 2011 – performance per soli due spettatori – Cava Henraux, Parco delle Alpi Apuane (Massa Carrara) – photo Vanni Bassetti – courtesy l’artista e Galleria Bianconi, Milano

Il secondo strale lanciato da Federici va direttamente contro le reazioni di industriali e sindaci preoccupati per le previsioni in materia di cave nel Piano paesaggistico della Regione Toscana. Il muro contro muro delle polemiche stride contro la sintassi dello sviluppo economico toscano del dopoguerra, quello di una cultura amministrativa (politica) che, senza rinunciare ai propri cardini ideologici, ha saputo assecondare la voglia di fare di tanti toscani senza offuscare irreparabilmente la bellezza del paesaggio.
Il Piano paesaggistico, al di là del nome vagamente bucolico, è un atto complesso, da addetti ai lavori, che pochissime persone possono dire di conoscere adeguatamente; ma è un atto di programmazione che fa cadere su tutto il territorio della Regione una serie di vincoli con i quali si imbatteranno i progetti di decine di migliaia di privati, imprenditori, professionisti ed enti locali; come per la prova del budino, i suoi effetti reali si materializzeranno solo nel tempo, quando i loro progetti, piccoli e grandi, si scontreranno con previsioni forse ragionevoli a livello macro, ma in molti casi verosimilmente eccessive rispetto al complesso caleidoscopio delle vita quotidiana che i piani spesso non riescono a prefigurare.
Nelle audizioni del Consiglio Regionale gli stessi tecnici dei Comuni hanno candidamente ammesso di non aver avuto modo di approfondire le carte dei rispettivi ambiti. Tutto questo fa pensare che i pregi (o i difetti) del Piano siano evocati non per i contenuti specifici (che pochi possono dire di conoscere a fondo) ma per le intenzioni che i diversi fronti gli attribuiscono.
Nelle grida che falsano il confronto sul Piano paesaggistico c’è comunque una dimensione incomprensibilmente assente. Uno dei caratteri distintivi del paesaggio toscano (delle sue città come dei centri minori, dai piccoli borghi dalla Lunigiana a quelli della Maremma, dalla piazza dei Miracoli alle chiese di Lucca, dal Duomo di Firenze ai palazzi di Pienza) è dato dall’impiego delle pietre naturali: è difficile pensare che cosa resterebbe nell’immaginario della Toscana se non si fosse fatto uso copioso delle pietre serena, di Santa fiora, del marmo delle Apuane, del tufo degli etruschi, dell’alberese di Prato, del travertino di Rapolano. Anche nella produzione dei mattoni, altro ingrediente base del paesaggio toscano, si fa uso di argille che inevitabilmente presuppongono attività di estrazione in qualche angolo della Regione. Una parte importante della bellezza della Toscana è stata costruita sui prodotti e sulle attività delle sue cave; ai prodotti delle cave è legata indissolubilmente la costruzione del paesaggio.§

Una cava - photo Tramontana Unimedia

Una cava – photo Tramontana Unimedia

Pensare che le cave siano un’attività impattante di cui, in nome del paesaggio, si può fare a meno, è semplicemente un non senso. Tutto quello che usiamo lo prendiamo dalla crosta terrestre e non si tratta di scegliere tra “cave sì – cave no”, ma tra questa o quella cava; meglio dunque concentrarsi non sulla progressiva chiusura della cave ma su come regolamentare intelligentemente un’attività di cui non possiamo fare a meno, tanto più che le cave, nel caso delle Alpi Apuane, coprono meno del 4% della superficie totale. Se davvero vogliamo ritrovare il sentiero dello sviluppo e creare posti di lavoro per le giovani generazioni, dobbiamo incoraggiare gli investimenti nei nuovi settori: ma non per questo dobbiamo rinunciare al contributo di settori come quello delle cave nella cui gestione, come insegna la teoria dei giochi con il dilemma del prigioniero, alle precipitose censure delle bozze di Piano paesaggistico della Regione Toscana si dovrebbero preferire strategie di tipo cooperativo.

Andrea Balestri
Direttore Associazione Industriali Massa Carrara

Concerto in una cava

Concerto in una cava

LA CONTROREPLICA

La replica del dottor Balestri contiene dati interessanti e fornisce spunti di riflessione; non credo tuttavia che smentisca le considerazioni che ho sviluppato nel mio articolo. Quanto al primo aspetto su cui la replica si sofferma, il fatto che il marmo ridotto in scaglie e in polvere sia soprattutto costituito da scarti non modifica il punto centrale della questione: le Apuane vengono quotidianamente sbriciolate. La produzione di un enorme quantitativo di scarti (i numeri sono impressionanti: nel 2012, a fronte di 1,25 milioni di tonnellate di blocchi di marmo estratti nel distretto lapideo di Carrara e della Versilia, sono stati prodotti circa 3,8 milioni di tonnellate di scaglie e sassi) non è una condanna divina: si sceglie di produrli, ricorrendo a tecniche di estrazione particolarmente distruttive (si veda l’angosciante carrellata di esplosioni nel cortometraggio di Alberto Grossi Aut Out). Da quando poi si è scoperto che gli scarti non sono semplicemente scarti, ma moneta sonante, si fa brillare la montagna ancora più volentieri. Dare una verniciata di verde a queste pratiche, presentandole come coscienziose azioni di riciclaggio, non mi pare corretto: più che di green economy mi sembra che qui si possa parlare di ecobusiness.

In merito al secondo punto, emerge proprio quell’impostazione che critico nell’articolo, ovvero l’appello strumentale alla tradizione, la difesa dell’esistente in nome di una continuità che in realtà non c’è (si tira in ballo Michelangelo per giustificare e nobilitare un’attività estrattiva che ormai ha poco a che vedere con la grande scultura). Indubbiamente in Toscana la bellezza del paesaggio e dell’architettura è legata all’impiego che si è fatto in passato delle pietre naturali. L’impiego attuale del marmo apuano in architettura, tuttavia, o lascia perplessi per la bruttezza, il più delle volte cimiteriale, dei risultati conseguiti (“Non stavano meglio lassù in montagna queste lastre di rivestimento?”), o è finalizzato alla decorazione di edifici extralusso (grattacieli, moschee) a migliaia di chilometri dai luoghi di estrazione (dove peraltro l’utilizzo del marmo è stato sempre molto “democratico”, vista la facilità di approvvigionamento). Di fronte a questi aspetti occorre chiedersi, e chiedere ai cittadini cui le montagne e il paesaggio appartengono, se vale la pena affettare e portar via le marmoree vette per scopi come questi. Le montagne, sembra scontato ma è bene ribadirlo, non si rigenerano.

Fabrizio Federici

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Fabrizio Federici

Fabrizio Federici

Fabrizio Federici ha compiuto studi di storia dell’arte all’Università di Pisa e alla Scuola Normale Superiore, dove ha conseguito il diploma di perfezionamento discutendo una tesi sul collezionista seicentesco Francesco Gualdi. I suoi interessi comprendono temi di storia sociale dell’arte…

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