La fotografia come sottrazione. A colloquio con Francesca Rivetti

Una conversazione tra Francesca Rivetti e Angela Madesani. Che, come succede ormai da alcuni mesi, introduce il portfolio pubblicato su Artribune Magazine nella rubrica di fotografia.

Il lavoro di Francesca Rivetti (Milano, 1972) si propone di cogliere l’essenza dei fenomeni, ponendosi in chiara contrapposizione agli eccessi visivi del tempo in cui ci è dato vivere. In tal senso agisce per via di sottrazione. Il vuoto, come pure il rapporto tra il reale e l’immaginato, sono diventati, nel corso degli anni, temi portanti della sua ricerca. Rivetti ne offre una lettura complessa come di metafora di uno spazio privo di sovrastrutture di sorta. Il suo intento è creare un immaginario a cui restare legati, un luogo dove scindere il senso del sé da spazio e tempo. Ha così sviluppato una profonda consapevolezza sulla forza delle immagini e sul loro potere di influenza sul pensiero. La sua volontà è suscitare proiezioni visive che lascino spazio a chi guarda, piuttosto che offrire immagini chiuse in se stesse già foriere di risposte.

Il soggetto di Answers without questions (2011-2012), un titolo evidentemente sarcastico come spesso accade per i suoi lavori, sono gli occhi dei pesci morti, quelli che vediamo quotidianamente sui banconi del supermercato.
Infatti sono tutti pesci che ho comprato al supermercato. Alcuni mi hanno addirittura affascinato perché avevano l’iride danneggiata. Il loro sguardo va molto al di là dell’umano.

Francesca Rivetti, Costruzioni, dalla serie Inutili, 2009

Francesca Rivetti, Costruzioni, dalla serie Inutili, 2009

Mi pare di scorgere degli abissi negli occhi di questi poveri animali morti, che guardiamo con un atteggiamento di assoluta normalità quasi non fossero esseri viventi.
I pesci non vengono quasi considerati come esseri viventi. Quello che mi interessava era prendere in considerazione un tipo di occhi di una delle specie animali più diffusa, a noi perlopiù sconosciuti. Per questo lavoro ho utilizzato una lente, peraltro piuttosto grossolana, collegata all’obiettivo della macchina fotografica, che mi ha permesso di coglierne la profondità.

In queste risposte senza domande mi pare di scorgere un evidente interesse nei confronti del vuoto, un tema a te caro, che ritorna in molti dei tuoi lavori.
Certo. Questo lavoro è una riflessione su come vediamo. Il principio meccanico dell’occhio e quello della fotocamera sono molto simili: avviene principalmente grazie a un campo vuoto, e l’idea iniziale era perdersi in quel vuoto.

Francesca Rivetti, Joker, dalla serie Inutili, 2009

Francesca Rivetti, Joker, dalla serie Inutili, 2009

Anche in Breath keepers (2011-2012), lavori realizzati sott’acqua, si parla di profondità. È come se ci fosse la volontà di andare oltre, un bisogno di andare a scandagliare dentro il proprio io.
Assolutamente sì. E forse è più importante il percorso che non il punto di arrivo. Un’estate avevo per caso una custodia per utilizzare la macchina fotografica sott’acqua così mi sono imbattuta nell’apnea. Ho iniziato a leggere della pratica respiratoria adottata e di questa disciplina; ci ho visto qualcosa di molto simile alla mia concezione di fotografia. Non l’ho mai intesa come un mezzo per rappresentare la realtà, è piuttosto in una zona borderline tra ciò che è reale e ciò che non lo è. L’apnea ha qualcosa di molto simile a questo. Tra l’altro praticandola io stessa è come se avessi avuto la prova reale, tangibile, che l’immaginazione ha questo potere stravolgente, di scollamento dalla realtà. Il sistema nervoso centrale non fa differenza tra realtà vera e propria e la realtà virtuale. Se riesci a lavorare con l’immaginazione in un certo modo, il corpo ti chiede meno ossigeno. L’immagine ha un potere particolare sul corpo umano. Frequentando gli apneisti ho trovato interessante la loro, che è poi diventata anche la mia, tensione all’abbandono, alla fiducia nel cascare per poi risalire, al rilassamento totale per riuscire a immergersi sino a profondità incredibili senza bombole. È come una pratica di meditazione, un’esperienza interiore di matrice filosofica, che attraversa stati di trance fino a sfiorare in profondità estreme l’allucinazione.

Nei tuoi lavori il corpo umano sembra fare parte di un tutto, di un’immensità in cui le cose si annullano le une con le altre.
Breath keepers va in quella direzione. Il rapporto con l’acqua svela un po’ le paure che abbiamo con l’inconscio. L’acqua, il mare, come diceva Carl Gustav Jung, testimoniano la relazione con quanto è più profondo, è il rapporto con l’io interiore.

Francesca Rivetti, Tessera elettorale, dalla serie Inutili, 2009

Francesca Rivetti, Tessera elettorale, dalla serie Inutili, 2009

Il vuoto, come si è già detto, occupa un ruolo importante nella tua ricerca, è al tempo stesso denso e leggero. Si avverte un senso contiguo di pienezza e di vacuità. Mi colpisce in tal senso anche la serie di lavori intitolata Inutili (2009). Una foto ospita marginalmente una carta con il jolly. Un riferimento al destino?
Neppure io mi sono risposta in modo definitivo su cosa rappresenti il jolly. Sicuramente è anche un riferimento al destino.

Tra gli Inutili c’è anche una scheda elettorale accartocciata?
Non si tratta certo di un invito alla diserzione elettorale, ci tengo a sottolinearlo. Non è detto che quanto è considerato inutile lo sia realmente. È un lavoro sarcastico. Tra le cose che ho fotografato c’è anche un piedistallo, che può essere o meno considerato inutile. Prima degli Inutili ho realizzato i Rotti (2008). Ho iniziato a raccogliere cose rotte per terra, in particolare nella strada milanese dove abito. Le ho collezionate e le ho messe all’interno di alcuni vasetti di vetro.

Francesca Rivetti, Breath Keepers #1, 2011/2012

Francesca Rivetti, Breath Keepers #1, 2011/2012


Hai fatto un lavoro da archivista, hai creato una sorta di tassonomia del reperto.
Volevo iconizzare le rotture. In fondo, sono i nostri danneggiamenti. Fotografandoli su vetri museali antiriflesso ho tolto le ombre, volevo rappresentare l’oggettività delle cose. Mi interessava che gli oggetti potessero essere ricostruiti da chi li guarda attraverso un lavoro di immaginazione.

Parlando mi hai detto che ti incuriosisce la cecità. Su questo tema è Blind nel 2007?
In alcune fotografie propongo dei bastoni per ciechi, che sono istituzionalmente bianchi, in qualche caso da me dipinti di nero. In un’altra immagine ho scritto Image con l’alfabeto braille. Un controsenso, ovviamente, così come in un’altra opera dove ho lasciato passare la luce attraverso forature in corrispondenza del braille, scrivendo in quell’alfabeto la parola “tangibile”. Sono ossimori. Ho voluto mettere in relazione il sistema ottico con il sistema cognitivo.

Francesca Rivetti, Meteore 7, 2003

Francesca Rivetti, Meteore 7, 2003

Passando a un altro lavoro in cui il vuoto è determinante, Meteore: perché si intitola così? È un riferimento ai monasteri del nord della Grecia?
Sì, il riferimento è quello. In quella serie di lavori l’uomo è presente ma occupa uno spazio marginale, proprio come gli oggetti in altre serie di lavori. Ero interessata a cogliere il rapporto tra l’uomo e lo spazio. Inizialmente mi faceva quasi paura porre le cose, le persone ai margini dello spazio. In Soggetto difficile del 2004 il nucleo portante del lavoro non sono le persone ma lo spazio vuoto che vi è tra di esse.

Mi pare di cogliere in tal senso dei punti in comune con un altro tuo lavoro, Primo livello di azionismo sempre del 2004.
Il titolo e il lavoro sono un omaggio a Rudolf Schwarzkogler, nel senso che anche qui, come nella sua parabola esistenziale, c’è un distaccamento dal mondo, un senso profondo di esclusione. L’artista austriaco ha espresso con tenerezza e durezza, al tempo stesso, un aspetto della distruzione emotiva. Le sue performance erano private e la fotografia è l’unico documento che ci rimane di esse. Nel suo lavoro c’è un senso profondo di distruzione, di annientamento. Sono dell’idea, e questo mi avvicina a lui, che talvolta, quasi sempre, è meglio cancellare, togliere, che aggiungere. Da noi la distruzione è vista come negativa, ma nel pensiero orientale ha anche una valenza positiva, di rinascita.

Francesca Rivetti, Soggetto Difficile #1, 2004

Francesca Rivetti, Soggetto Difficile #1, 2004

In tutto il tuo lavoro c’è molta vicinanza con la cultura orientale.
Mi fa piacere che tu colga questo aspetto. Sono stata parecchie volte in Paesi del medio e dell’estremo Oriente e ne sono rimasta profondamente colpita. Ho letto molte cose su quelle culture e di quelle culture. Quello che mi affascina dell’aniconismo delle filosofie orientali è che non è tanto la forma ad avvicinarti a un’idea di cosa, ma il vuoto che c’è tra una cosa e l’altra. In certe religioni non si rappresenta il sacro proprio perché non si vuole che gli adepti rimangano legati a una rappresentazione univoca. La non rappresentazione sottolinea ulteriormente la presenza. Il tentativo è di usare il vuoto per offrire la possibilità di proiettare, di proiettarsi, da parte di chi guarda. In Abbastanza vuoto per esempio c’è l’idea di creare un’immagine nuova. In Soggetto difficile ho cercato degli sfondi che sottolineassero, appunto, il vuoto. Volevo stimolare un esercizio visivo, che rimanda alla cultura Zen.

Hai concentrato la sua attenzione sul passaggio, sul movimento.
Per Breath keepers ho riflettuto anche sugli studi di Zygmunt Bauman, in particolare quello che esplora il concetto di modernità liquida. In altri lavori mi interessa operare più una distruzione di senso. Un corno portafortuna o un occhio di vetro rotti, il destino in bilico attraverso il jolly. Ho fotografato una bellissima orchidea dal verso opposto rispetto a quello da cui la si guarda normalmente. Oppure ho spostato le persone dalla loro centralità.  Attraverso queste procedure cerco di mettere in crisi delle certezze sul vedere che per altro non ho, poi chissà?

Angela Madesani

www.francescarivetti.it

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Angela Madesani

Angela Madesani

Storica dell’arte e curatrice indipendente, è autrice, fra le altre cose, del volume “Le icone fluttuanti. Storia del cinema d’artista e della videoarte in Italia”, di “Storia della fotografia” per i tipi di Bruno Mondadori e di “Le intelligenze dell’arte”…

Scopri di più