Il presente come autosabotaggio
Tutto va male, dalla società alla politica, dalla cultura all’economia. Ed è colpa della generazione che ci ha appena preceduti. È uno dei refrain più diffusi in Italia. Ma non lo è soltanto ora, succede da secoli. Prova ne sia quanto scriveva Francesco De Sanctis sul Seicento. E così il nostro Paese si continua a crogiolare nel sabotaggio di se stesso.
Attraversare l’ultimo decennio è stato
come vivere in casa di genitori alcolizzati.
Nicola Lagioia
La continua, ossessiva insistenza sulla “peculiarità italiana”, sul nostro essere “unici” in tutto e per tutto, sempre e comunque diversi dagli altri (nella politica, nell’economia, nelle mutazioni sociali ma soprattutto in campo culturale) rappresenta forse, paradossalmente, l’ultima eredità del Rinascimento. Un’eredità pervertita e distorta, certo, ma pur sempre un’eredità.
Inoltre, uno dei nostri vizi più diffusi e pervicaci è quello di pensare, a ogni generazione, di essere i primi italiani a fronteggiare i problemi che abbiamo davanti, e che tutte le colpe ricadano sulla generazione precedente. Se ne era già accorto Francesco Arcangeli quando avvisava i suoi studenti ‘ribelli’ del 1970: “E certo voi giovani che contestate o che avete contestato siete subito pronti, ingenuamente e in genere senza malignità, a dar colpa di questo alla generazione che vi precede […]. Non riflettete però, perché non ne avete coscienza, che l’immobilismo culturale o certe negatività o certe forme autoritarie che riscontrate in noi hanno, se volete essere seri, delle ben più antiche radici, e sono la conseguenza, non la causa, d’una antica estraniazione della vita italiana rispetto ai grandi fatti del mondo moderno” [1].
Dunque i problemi, le criticità, i paradossi, le contraddizioni e le paralisi tutte speciali, tutte particolari, possono essere fatte risalire indietro, indietro, e indietro. Giusto a titolo di esempio, Francesco De Sanctis nella sua Storia della letteratura italiana (1870), riferendosi allo spirito del Seicento scriveva: “Ora ci è un mondo ipocrita e inquisitoriale, dove la vita religiosa e sociale fuori della coscienza è meccanizzata e immobilizzata in forme fisse e inviolabili. L’arte intisichisce, priva di un mondo libero intorno a sé” [2]. Del resto, è proprio tra secondo Cinquecento e Seicento che si avvia quel famoso “declino italiano”, tornato di gran moda negli ultimi anni e negli ultimi mesi. Anche qui, le radici affondano nei secoli, e non a Wall Street o negli Anni Settanta del Novecento. E ancora: “Questa è la vita morale, religiosa e nazionale italiana a quel tempo: un mondo tornato in moda, favorito dagl’interessi, mantenuto nelle sue apparenze, rimbombante nelle frasi, non sentito, non meditato, non ventilato e rinnovato, non contrastato e non difeso, non realtà e non idealità, cioè a dire non praticato nella vita, e non scopo o tendenza della vita. Il tarlo della società era l’ozio dello spirito, un’assoluta indifferenza sotto quelle forme abituali religiose ed etiche, le quali, appunto perché mere forme o apparenze, erano pompose e teatrali. La passività dello spirito, naturale conseguenza di una teocrazia autoritaria, sospettosa di ogni discussione, e di una vita interiore esaurita e paludata, teneva l’Italia estranea a tutto quel gran movimento d’idee e di cose da cui uscivano le giovani nazioni di Europa; e fin d’allora ella era tagliata fuori del mondo moderno, più simile a un museo che a società di uomini vivi” [3].
Nulla di familiare, in queste frasi? “Più simile a museo che a società di uomini vivi” è una descrizione perfetta anche per l’Italia degli ultimi decenni, e soprattutto di oggi: di “quel processo di autosabotaggio che è il presente italiano”, come scrive Giorgio Vasta [4]. Un museo tutto scorticato e rattoppato, in cui l’assurda e pericolosa condizione collettiva sembra essere quella del silenzio, della scomparsa, dell’eclisse: “Tacere, o meglio ammutolire, addestrarsi alla sparizione, sembra la colonna vertebrale delle generazioni tra i venti e i quarantacinque anni.”
(Auto)sabotaggio e sequestro sono le idee-chiave che catturano l’immaginario condiviso da almeno due o tre generazioni – perseguitandolo e ossessionandolo come fantasmi attitudinali – sotto la pelle luccicante dell’infantilizzazione coatta e della nostalgia per le cose inutili e di nessun valore: l’Italia dell’ultimo trentennio inaugura se stessa proprio con le due figure della costrizione in spazi claustrofobici, Aldo Moro (1978) e Alfredino (1981). Il loro impatto si riverbera lungo gli anni e i decenni, fino a informare di sé la nostra percezione dello spazio (italiano) e del tempo storico (italiano) in cui viviamo.
Christian Caliandro
[1] F. Arcangeli, Dal Romanticismo all’Informale. Lezioni Accademiche 1970-71, Minerva, Bologna 2005, p. 22.
[2] F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana [1870], Salani, Firenze 1965, pp. 509-510.
[3] Ivi, p. 514.
[4] G. Vasta, Le scritture che traboccano, in “minima&moralia”, 11 febbraio 2013, http://www.minimaetmoralia.it/wp/le-scritture-che-traboccano/.
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #12
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Questo testo è confluito in forma diversa nel libro “Italia Revolution” (Bompiani, collana Agone).
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