Il presente e la storicizzazione del presente
è l’esposizione a un fascio di luce nera
che ugualmente acceca.
GIUSEPPE GENNA
Il fatto è che una società “chiusa” con problemi strutturali e disfunzioni sociali come quella italiana di questi anni, inevitabilmente trasmette queste stesse criticità alla produzione culturale. Un Paese e una collettività in declino non possono produrre opere e contenuti di prim’ordine. Semplicemente, non ne sono più in grado: esprimeranno inevitabilmente qualcosa che sia disponibile alla consolazione, alla retorica, all’autocelebrazione. Alla negazione della realtà.
E il modo migliore, più efficace di negarla è offrirne una rappresentazione del tutto dissociata, ideale, finzionale, modellata su schemi importati o sognati. Offrirla agli altri, e soprattutto a se stessi. Così, ogni discorso culturale ruota attorno a premesse esaurite, e fa finta che negli ultimi decenni e anni nulla sia accaduto, se non in meglio. Stiamo continuando una conversazione che si è estinta da tempo: così, per rassegnazione, pigrizia e – soprattutto – paura. Ci aggiriamo nel panorama culturale come spettri, come i guardiani di una città-fantasma. Lo stesso “panorama culturale” è questa città-fantasma.

Il “fare finta di niente”, il continuare quasi per gioco il discorso della cultura su premesse superate e come se nulla fosse accaduto nel frattempo (tanto più se, al di là della convenzione, il lavoro culturale nei fatti si svolge secondo modalità e finalità mutate) è pericoloso perché ci impedisce di andare avanti. Se si vive nella finzione perché è più comodo, non si può poi pretendere che il risultato sia efficace. Se si sceglie di restare lontani – a distanza di sicurezza – dalla realtà, non è possibile immaginare un oggetto culturale che influisca profondamente su di essa. È un atteggiamento infantile. Non si può insomma pensare di realizzare qualcosa di veramente notevole e potente lasciando tutto il resto così com’è: lavorando cioè nella dissociazione, e non sulla dissociazione.
Questo lavoro sulla dissociazione viene portato avanti, negli ultimi anni, quasi esclusivamente dagli scrittori: il ripensamento degli ultimi trent’anni italiani, dei punti d’origine e delle formazioni storiche, dà luogo ad un racconto in gran parte inedito dell’identità collettiva, che affronta i traumi e non li aggira. E questo racconto, che proviene dalla zona oscura della realtà diametralmente opposta a quella dell’illusione di realtà, è il presupposto dell’immaginazione, e della costruzione, di ogni realtà futura.

Questa pattuglia di testi (elencati qui senza alcuna intenzione di catalogazione esaustiva) è composta da: Assalto a un tempo devastato e vile (2001; 2002; 2010), Dies Irae (2006), Italia De Profundis (2008) e Hitler (2008) di Giuseppe Genna; Lettere a nessuno (1997; 2008), Gli esordi (1998), Canti del caos (2001; 2003; 2009) e Gli incendiati (2010) di Antonio Moresco; Il tempo materiale (2008) di Giorgio Vasta; Come Dio comanda (2006) e Che la festa cominci (2009) di Niccolò Ammaniti; Cinacittà (2008) di Tommaso Pincio; il dittico composto da Stirpe (2009) e Nel tempo di mezzo (2012) di Marcello Fois; Lezioni di tenebra (1997) e Le rondini di Montecassino (2010) di Helena Janeczek; Troppi paradisi (2006), Il contagio (2008) e Resistere non serve a niente (2012) di Walter Siti; Il bambino che sognava la fine del mondo (2009) e La seconda mezzanotte (2011) di Antonio Scurati; Altare della patria (2011) di Ferruccio Parazzoli; Elisabeth (2011) di Paolo Sortino.
Come si vede, si tratta di romanzi e autori diversissimi tra loro, per stile, interessi, impostazioni tematiche. Che cosa hanno in comun allora queste narrazioni? Ognuno di questi libri è a suo modo ‘misterioso’; molti sono profetici nel tono stesso delle pagine (un tono brusco e salmodiante, che riorienta subito il nostro modo di percepire l’argomento): si tratta però di una profezia che ha a che fare con il già accaduto.

Spesso, si incaricano di compiere l’autopsia di un’epoca storica nazionale (quella appena conclusa: “gli anni Ottanta e Novanta e Zero Zero”), un’autopsia che coincide con la sua comprensione. Vogliono cioè riscrivere la storia recente del nostro Paese, attraverso i mezzi letterari. Gli ultimi decenni sono squadernati attraverso le apparizioni che appartengono ad essi: “In questo lungo gioco di sguardi (di campi e controcampi, di canti e controcanti) che attraversa lo spazio nazionale si concentra il fantasma concreto ed evanescente di un paese claustrofilico, la grande microscopica capsula temporale da cui non riusciamo a venire fuori” (G. Vasta, Altare della patria – recensione, “minima & moralia”, 18 novembre 2011).
Christian Caliandro