Torino-New York sola andata. Intervista con Gian Enzo Sperone

La sua prima galleria newyorchese fu inaugurata nel 1972 insieme ad Angela Westwater e a Konrad Fischer. Ma lui faceva il gallerista già da dieci anni, a Torino, facendosi alfiere prima della Pop Art e poi dell’Arte Povera. Da un anno e mezzo si è trasferito sulla Bowery, in un edificio progettato da Norman Foster. Tutto, proprio tutto, su Gian Enzo Sperone. Raccontato da lui medesimo.

Come è cominciata la sua avventura nell’arte?
Ero un artista fallito, nel senso che pensavo di essere destinato alla scrittura, ma avendo per fortuna una vigile autocritica avevo capito fin da ragazzo che mi mancava qualcosa. La penna l’ho spezzata nel ’56, quando è uscita l’edizione italiana di Foglie d’erba di Walt Whitman: di fronte a quella meraviglia mi sono detto che non avrei mai potuto fare lo scrittore. Ho lavorato due anni alla Olivetti, un’azienda allora all’avanguardia, una specie di laboratorio progressista, dove ho imparato tantissimo. Speravo di entrare nell’ufficio pubblicità, che consideravo il più vicino al mondo dell’arte, invece sono finito a fare il venditore. Ma proprio in quella posizione ho imparato moltissimo, in particolare la cura del cliente: la capacità di consigliarlo nel modo giusto, a seconda delle sue necessità. Solo così tornerà. Quando feci il colloquio dopo la prima selezione ci invitarono a pranzo e alla fine mi resi conto che avevano scelto quelli di noi che mangiavano più velocemente: quelli che masticavano molto erano di certo più saggi, ma chi mangia più veloce lavora di più! Questa era l’Olivetti.

E l’arte?
Ne ero comunque attratto, e già all’università, che non ho terminato per questioni finanziarie, ho pensato che l’arte figurativa potesse essere un’alternativa. A ventidue anni ho conosciuto la vicenda della Pop Art, che mi ha subito entusiasmato e segnato: quando ho conosciuto Liechtenstein a Parigi nel ’63 mi sono buttato, riuscendo a organizzare a Torino mostre incredibili. Ero un invasato, non so dire cosa mi succedeva, ma con quei primi successi sono riuscito subito a guadagnare e a ricomprare altre opere. Torino a quei tempi mi stava strettissima, anche se con gli occhi di oggi mi rendo conto che è stata una città che ha anticipato moltissime cose. Forse perché allora la Fiat era un’azienda modernissima, con una forza trainante sulle altre attività.

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La Galleria Sperone Westwater sulla Bowery

A tal proposito, com’era l’ambiente torinese?
Noi eravamo arroccati nella nostra galleria. Ci scrivevano sui muri: “il pennello non va a destra”.Senza capire naturalmente che l’arte va dove deve andare. La galleria si trovava al piano di sotto della sede di Lotta Continua. Ricevevo continue minacce e la Pop Art era considerata una provocazione. Figurarsi poi se a occuparsene era uno come me, amico dell’avvocato Agnelli!
Agnelli è stato una figura importante nella mia storia. Pensai di chiedergli aiuto perché da tempo seguiva il mio lavoro e si era appassionato al progetto di aprire una galleria in America: anche se detestava l’arte americana, amava le persone un po’ folli come me. Poi è arrivata violentissima la crisi del petrolio. Ci ho messo cinque anni a restituirgli quei soldi, un milione di dollari. Le opere che avevo acquistato con quel prestito oggi varrebbero ottocento milioni di dollari! Sei Warhol, che era il mio mito, e poi Liechtenstein, Twombly, Morris Louis, Frank Stella e Jasper Johns, sarebbero in una collezione ideale se Gabetti dell’Ifi, la finanziaria di casa Fiat, non avesse voluto vendere tutto. Non so se in seguito siano mai riusciti a fare investimenti così redditizi!  Uno dei miei rimpianti è quello di non essere mai riuscito a vendere un quadro all’avvocato Agnelli. Lui i soldi me li aveva prestati anche se, come ho detto, trovava tremenda l’arte americana. Chi amava? Balthus, Léger, Giacometti.

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Gian Enzo Sperone

Com’era il mercato americano allora?
Ho aperto a New York nel ’72: allora si pensava che l’unica cultura spendibile fosse quella europea. Non si sapeva ancora che l’America del dopoguerra avrebbe prodotto questo incredibile squadrone di artisti che erano i Pollock, i de Kooning… L’errore di vendere durante la crisi petrolifera (dal ’73 al ’76) fu dettato dal fatto che ci hanno fatto credere che l’arte sia un bene rifugio, mentre invece vendere in tempi difficili significa andare contro il mercato. L’arte è un rifugio dello spirito. Può anche diventare altro, ma ci vuole calma, lentezza, che d’altra parte è una caratteristica dell’arte. Poi, quando meno te lo aspetti, ti arrivano elargizioni straordinarie.
Per fare questo mestiere, sui soldi non devi mai avere dubbi. Ho sempre comprato anche indebitandomi, magari facendomi finanziare dalle banche: ma se un artista mi piace gli compro tutto, o almeno tutto il possibile. Era la stessa tecnica che usava Giuseppe Panza, anche se non lo conoscevo, il più grande visionario italiano di quegli anni. Ha dominato la scena artistica americana dagli Anni Cinquanta fino ai Settanta con la sensibilità giusta per intercettare gli artisti migliori.
Anche questa nuova galleria è un’operazione fatta con il sostegno delle banche, ci sono voluti quasi 35 milioni di dollari. Ero con le tasche bucate, allora, e lo sono ancora adesso… Però salvo sempre i quadri.

Si sente più collezionista o più mercante?
Più collezionista! Questa è una galleria che dà sempre utili, però i veri soldi li ho guadagnati come collezionista, magari vendendo certi quadri dopo trent’anni. Un quadro che hai comprato a duecento dollari e che vendi a quindici milioni: è quello che fa la differenza.

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Sperone Westwater Gallery – New York

Lei ha introdotto l’Arte Povera. Come ebbe quell’intuizione?
La storia dell’Arte Povera viene dopo tutta la lezione derivante dalla Pop Art, che era una forma di critica e di esaltazione della società di massa. E delle sue conseguenze. Nel mondo stavano nascendo movimenti giovanili in California, a Parigi e poi in Italia. Quindi nel ’68 la Pop era ormai inguardabile. Non potevi più guardare i ritratti di Andy Wharol perché c’erano altre necessità, altre illusioni, altri sogni. E uno di questi, che peraltro secondo me è l’ultimo movimento modernista del secolo, perché tutto quello che è venuto dopo l’Arte Povera è Postmodern (il che non vuol dire che sia meno valido, ma questo lo vedremo), è proprio l’Arte Povera. È stato l’ultimo grande movimento perché portatore di un sogno che oggi non esiste più, nel senso che dopo vengono solo icani sciolti. Ognuno con un suo sogno, incapace però di fare gruppo, fare sistema. Quindi non dilaga nell’immaginario collettivo. L’Arte Povera ci ha messo degli anni, anni difficilissimi, però aveva questa capacità di sogno, che poi era la stessa che avevano gli studenti, quelli che volevano fare la rivoluzione. Il mondo è cambiato a una velocità impressionante. Così potente che non c’era forse più tempo per ricreare le condizioni per parlarsi. Scambiarsi emozioni vere.

Come è cambiato il mercato?
Ci sono tre fattori. Allora le case d’asta non erano più di un paio, e quindi c’erano poco più di due aste all’anno. Adesso le case d’asta sono un elenco interminabile e in tutti i Paesi del mondo ogni giorno ci sono almeno una o più aste. Secondo, non c’erano le fiere. Se ne faceva una ogni tanto, mentre ora ci sono fiere in continuazione. La galleria come luogo di scambio dove si andava con reverenza e aspettative è finita. Noi siamo qui, ma è anche un po’ patetico, perché lo spettacolo avviene dappertutto, salvo che nei luoghi deputati. Poi c’è una terza cosa: gli artisti come li immaginavamo, come speravamo che continuassero a essere, cioè sognatori, si sono invece trasformati in manager. Quindi oggi gli artisti sono galleristi di se stessi. A maggior ragione noi siamo figure patetiche, nel senso che spendiamo un sacco di quattrini per promuovere ogni mostra: in questa stanza abbiamo speso cifre rilevanti anche solo per trasportare le opere. Io ho il piacere di ricevere le persone che mi piacciono, circondandomi di cose che ritengo serie. Tuttavia lavoro per gli artisti, che invece non mi usano come loro gallerista, ma vendono a me come a decine di altri.

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Gian Enzo Sperone

Il rapporto con gli artisti come grande rischio e azzardo…
Ho rischiato la mia reputazione e i soldi, nonché la mia tranquillità personale, per gli artisti in cui ho creduto. Ho rischiato un bel po’ di soldi a Venezia al Museo Correr, durante l’ultima Biennale, per promuovere l’ennesima retrospettiva di Schnabel insieme a Barilla. Di che pasta sei fatto è costata 105mila euro. Continuamente investo su artisti esordienti che mi vendono le opere a 4mila che io espongo in galleria a 8mila, perché la galleria ha il 50%. Quello che incontrerò oggi, dopo questa intervista, fa quadri a olio deliziosi in grisaille, sembrano presi da fotografie del primo Novecento. Da lui compro tutto, e la stessa cosa la faccio con molti di loro, perché è quasi matematico che, di tutta questa massa di artisti che noi oggi appoggiamo come sistema dell’arte, il 90% sparirà. Resterà il 5%. È difficile anche se sei curioso e appassionato, con una grande esperienza come il sottoscritto, beccarne cinque su cinque! Comprane tanti, sbagliane tanti, perché uno solo ti ripaga.

Nel 2011 le case d’asta hanno venduto ai cinesi per 8,3 miliardi di dollari, quindi più che al mercato americano. L’entrata di questi nuovi investitori come cambierà il mercato mondiale dell’arte?
Non hanno venduto l’arte cosiddetta di punta, in quella cifra ci sono anche gli elefantini di avorio: per questo il mercato cinese ha sorpassato quello americano. La Cina ha un’economia vulcanica che cresce a ritmi vertiginosi con tanta zavorra, tante intuizioni e tante cose che anche lì spariranno. Ci sono artisti cinesi che vendono regolarmente in asta oltre il milione, ad esempio. Questi sono una realtà, non sono derivati della cultura occidentale, come ho tentato di dire a me stesso nel passato: sono artisti veri. Capaci di pescare nelle proprie radici o portando avanti i modi della pittura, attingendo sempre a un serbatoio che appartiene esclusivamente a loro. Penso che siano molto forti ed è inutile illudersi che non ce la faranno perché copiano l’Occidente.

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Sperone Westwater Gallery – New York

Come cambieranno il mercato dell’arte? Come sono rispetto ai nostri grandi maestri?
Nel bene e nel male hanno già assunto i nostri modi, purtroppo. Uno di loro, di cui ho comprato diverse opere e spero di comprarne ancora, è Ai Weiwei: figlio di intellettuali, arrestato per le sue convinzioni politiche, è l’autore dello stadio Nest di Pechino. Ci dicevamo che in Cina si può fare tutto ma non si può dire tutto. Al contrario di qui, che puoi dire tutto e non puoi fare nulla! Loro faranno gli stessi errori che abbiamo fatto noi. Ai Weiwei è comunque inarrestabile, farà le mostre nei migliori musei, anche se la sua arte non so se risulterà credibile quanto il lavoro di un Alberto Giacometti, tanto per fare un nome. Io l’ho conosciuto, Giacometti: un uomo incredibile, che viveva come un monaco e andava a puttane tutte le sere. Ha dormito tutta la vita su un pavimento di terra battuta nella sua casa di Parigi. Questi grandi uomini, che riverberano qualcosa di indefinibile, erano portatori di altre necessità, aspirazioni, visioni. I cinesi magari hanno anche l’equivalente di Giacometti, però non tutti riescono a farsi strada, perché oggi, se non sei bravo a gestire la tua immagine, e quindi se non conosci almeno istintivamente il marketing, non ce la fai. Ai Weiwei, invece, è capace di autopromuoversi, quindi ha successo. Un esempio italiano? Mario Schifano, un uomo di straordinario talento, secondo me ha rovinato la sua vita perché ha messo la sua arte al servizio della sua vita, mentre deve essere il contrario.

Il grande artista rischia di non essere scoperto?
Oggi si sa tutto. Se tu hai il talento, è impossibile che non venga fuori. Anche perché tipi come me ce n’è milioni, sempre a caccia!

Esiste ancora uno spazio per la sperimentazione?
Enorme, sempre. Con il rischio patetico di finire in un gruppetto di sfigati che si autoemarginano.

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Gian Enzo Sperone

Il mercato li soffoca?
Il mercato siamo noi, sono i fondi d’investimento, delle pensioni, delle Ferrovie dello Stato italiane o cinesi. Non c’è mai stato tempo per riflettere. Abbiamo sempre lavorato nelle pieghe della storia, nei crocevia più nascosti, senza garanzia e senza rete, eppure chi doveva rimanere è rimasto. L’uomo è sempre quello. O è visionario o non lo è. Se è visionario, è inarrestabile. Ho passato l’estate a fare riflessioni sui grandi uomini italiani del Risorgimento. Su Mazzini, Garibaldi e Cavour, e in particolare sull’ammiraglio che fu il responsabile della battaglia di Lissa contro l’Austria, che si chiamava… Persano. Sono amico del suo discendente e posso dirvi che soffre ancora perché il suo antenato è stato degradato ingiustamente in un assurdo processo. Quanto a me, riflettendo su Mazzini e sui suoi tempi, mi dicevo che ancora oggi esistono uonimi così: Mandela, ad esempio. Uomini che non si piegano a nessuna forma di pressione, però sono sempre più rari, perché il frastuono è tale che è difficile resistere. La storia è sempre la stessa: alcuni capiscono e vedono, e vengono regolarmente zittiti, ma ci sono, bisogna andarli a cercare e farsi raccontare cosa pensano. Ho un amico, un pittore giapponese buddista, Mikio Shima Gaua, che tutti i giorni medita due ore. Siccome non campa vendendo le opere, ha aperto un ristorante fantastico a Soho, Omen, un piccolo luogo di culto per comprendere la cucina giapponese. Tutti i mesi va a Kyoto perché suo padre, anche lui pittore zen, gli ha lasciato un terreno dove va a meditare e a ricaricarsi per la vita. Il suo grande amico è il traduttore dal sanscrito delle opere del Dalai Lama, l’unico monaco buddista americano, Vreeland.

Qual è il profilo dell’investitore?
È uno che non vuole investire, nel senso che compra l’arte perché gli piace, perché ha un valore consolatorio, e anche perché gli decora la vita. Anche questo è il ruolo dell’arte. Sono convinto che metterla in termini matematici non funzioni: alla fine non riusciamo a intenderci. Purtroppo, con tutte le analisi anche obiettive che si possono fare, l’arte è una materia molto sfuggente, e quindi va trattata come tale. Ad esempio, un nostro cliente affezionato è John McEnroe, il tennista, che ha sempre avuto il sogno dell’arte. Ci sono strani personaggi nel mondo dell’arte, gente inimmaginabile.

Come vede da qui l’Italia?
Con grandissimo rimpianto. Infatti ci vado continuamente.

E il mercato dell’arte italiano?
Inesistente. La borghesia americana, dopo aver soddisfatto le esigenze di rito, dà per scontato che l’arte sia da comprare. Da almeno una cinquantina d’anni questo atteggiamento è entrato nel loro dna. Mentre non è così in Italia. Da noi, quando un’opera costa più di un weekend da qualche parte del mondo, si cominciano ad avere delle resistenze. Qui in America si compra l’arte con quella necessaria leggerezza con cui si faceva in Europa molto tempo fa.

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Sperone Westwater Gallery – New York

Qual è il suo rapporto con l’arte antica?
Ho sempre pensato che il problema dell’arte è maledettamente complicato e al tempo stesso molto semplice. Tutti gli artisti sono stati contemporanei per un momento della loro vita. Certo, ogni artista è stato nel suo fare “un contemporaneo”. Così l’arte antica ha molti punti di contatto col contemporaneo. È ancora in grado di rivelare qualcosa. Tutti gli artisti hanno avuto il problema di esprimersi in modo autonomo e originale, magari contraddicendo chi veniva prima, il loro padre culturale o spirituale. Devi tentare di distruggere il linguaggio precedente per imporre il tuo. Ed è anche legittimo inglobare il lavoro di un altro, ma io sono sempre dell’idea che, se ti esprimi in un centimetro quadrato, puoi andare da lì al centro della Terra: basta bucare in verticale. Ma se ti vuoi esprimere in un chilometro quadrato, non vai da nessuna parte. È quasi naturale che gli stessi problemi che aveva Guido Reni ai primi del Seicento, che aveva Caravaggio, che aveva Poussin, siano gli stessi che hanno i ragazzi d’oggi. Solo che l’estetica è cambiata maledettamente, e non necessariamente in meglio. Ci sono perenni oscillazioni del gusto, quindi quello che si riteneva appagante, convincente e significativo nel Seicento, oggi è incomprensibile, e viceversa. Il tentativo di sostituire il vecchio linguaggio, negandolo a forza di rotture per dimostrarsi indipendenti e rivoluzionari, crea anche regressioni, non necessariamente evoluzioni.  Oggi il linguaggio dell’arte è in crisi perché la provocazione, che è diventata parte sostanziale dell’esperienza creativa, può portare a degli errori. Ormai siamo andati oltre, e poi tutti gli intellettuali che ruotano intorno a questo mondo per ragioni venali, magari perché fanno i curatori nei musei, hanno un problema, come i manager delle aziende: il fatturato. Per questo devono attrarre il pubblico, il che li costringe a fare delle ruffianate. I musei di arte contemporanea nel mondo certamente ci danno merce avariata. E quella merce avariata piace alle masse. Io sono maledettamente moderato e mi sorpassano tutti a destra e a sinistra. Come succede nella politica, c’è ormai una separatezza tra le istanze degli operatori, il pubblico che fa massa, e gli altri che sono un mondo a parte, una sorta di coscienza dell’arte.

Qual è il futuro delle gallerie?
Il futuro delle gallerie come luoghi deputati, cattedrali o centri di pensiero, è ormai finito, perché la gente ha sempre meno tempo. Le aste sono invece diventate maledettamente importanti: si partecipa anche per telefono, anche se tutto questo, più che avvicinare al senso dell’arte, somiglia sempre più a una partita di poker!

Emanuela Avallone

www.speronewestwater.com

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #6

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