Le seduzioni di Man Ray. A Torino

Il rapporto fra Man Ray e la donna è l’oggetto della mostra allestita negli spazi di Camera – Centro Italiano per la Fotografia a Torino, che riunisce oltre duecento immagini di un grande protagonista del Novecento e di alcune signore dell’arte e della fotografia ‒ da Lee Miller a Berenice Abbott, da Dora Maar a Meret Oppenheim. I curatori Walter Guadagnini e Giangavino Pazzola offrono una lettura trasversale di matrice iconografica ed esistenziale di una parte fondante della storia della cultura del secolo scorso.

IL TEMA

La scelta del tema della mostra, come spiega Guadagnini, è dettata da due motivi: “Il primo è che il tema femminile è sempre stato centrale in ogni mostra di Man Ray, e lui stesso ha sempre evidenziato questa centralità, basti vedere il suo primo volume monografico del 1934, per metà dedicato a questo tema, tra nudi, ritratti e particolari anatomici. Però non ci si è mai soffermati sul fatto che moltissime delle figure femminili che hanno gravitato nella sua orbita – utilizzo scientemente questa locuzione, Man Ray era davvero un personaggio centrale e probabilmente abbastanza accentratore nel suo ambiente – hanno avuto una loro vita creativa degna di essere raccontata e mostrata. Oltre ad Abbott e Miller, non ci si può dimenticare che Dora Maar ha realizzato un contenuto ma significativo nucleo di fotografie, alcune delle quali degne di figurare tra i capolavori dell’immaginario surrealista, che Meret Oppenheim è stata una splendida modella per Man Ray, ma anche una grande artista, e la sua tazzina impellicciata è una delle icone di questa stagione. Che persino Nusch Éluard a sua volta ha realizzato alcuni collage, uno dei quali è esposto in mostra tra le divertentissime ‘Carte surrealistes’. Non solo muse, insomma. Il secondo motivo, direttamente legato al primo, è che finalmente gli studi stanno ponendo nella giusta luce l’opera di artiste che hanno sofferto dell’indubbio predominio maschile in questo mondo – figlio della configurazione della società del tempo – e attraverso questa prospettiva vogliamo fornire anche noi il nostro contributo”.

BERENICE ABBOTT E LEE MILLER

Berenice Abbott e Lee Miller sono appunto due figure rilevanti del panorama della fotografia novecentesca, con storie completamente diverse tra loro. “Abbott arriva in studio da Man Ray senza sapere nulla di fotografia, con una formazione da scultrice, ambito nel quale ha fatto già i primi passi negli Stati Uniti. Impara presto, e nel giro di tre anni è già in grado di aprire un proprio studio e di fare concorrenza al maestro nella ritrattistica del milieu intellettuale parigino del tempo. Quando lascia Parigi per tornare in America, poi, non mantiene particolari rapporti con Man Ray, né personali né artistici. Il suo modello è Atget, che Man Ray le ha fatto conoscere, ma che lei ha contribuito in maniera decisiva a rivalutare. Lee Miller, d’altro canto, giunge a Parigi come modella, già affermata e bellissima, conosce almeno i rudimenti della fotografia, diventa la compagna di Man Ray per un triennio, la modella preferita insieme a Kiki e a Meret, realizza immagini con e per lui, e, quando abbandona lo studio e la relazione, rimane in contatto con il maestro sia personalmente sia artisticamente”.

Man Ray, The Fifty Faces of Juliet, 1941 54 (2009). Collezione privata. Courtesy Fondazione Marconi, Milano © Man Ray Trust by SIAE 2019

Man Ray, The Fifty Faces of Juliet, 1941 54 (2009). Collezione privata. Courtesy Fondazione Marconi, Milano © Man Ray Trust by SIAE 2019

I MANICHINI

Una sala della mostra torinese è dedicata alla documentazione dei manichini dell’Exposition Internationale du Surréalisme del 1938, Les mannequins. Résurrection des mannequins. È una storia avvincente quella raccontata da Guadagnini: “Man Ray in quell’occasione era il ‘maestro delle luci’, oltre che artista in proprio e fotografo ufficiale, riunendo così tutte le sue anime creative. In quest’ultima veste fotografa tutti i manichini elaborati dai suoi compagni d’avventura, che componevano la ‘Rue Surréaliste’ della mostra. Negli Anni Sessanta, come spesso gli accadeva, trasforma queste fotografie in un portfolio, che oggi possiamo mostrare nella sua interezza, un dato che lo rende particolarmente raro e prezioso. Lo abbiamo installato nella stessa sala di ‘La photographie n’est pas l’art’, un portfolio dell’anno precedente, epocale a sua volta, caratterizzato dalla prefazione di Breton, quasi una sorta di summa del Surrealismo fotografico del maestro di Philadelphia. Questo anche per evidenziare come Man Ray tornasse spesso sui suoi lavori, li rielaborasse, ristampasse, ponesse in contesti differenti, è un aspetto molto interessante e molto contemporaneo del suo agire”.

GLI SCATTI

Tra le opere in mostra spicca Erotique voilée, Meret Oppenheim à la presse chez Louis Marcoussis del 1933, un’icona della cultura fotografica novecentesca, in cui Meret Oppenheim, completamente nuda, con le mani sporche di inchiostro, esibisce un fallo, costituito dalla manovella della pressa: un’operazione transgender ante litteram.
Nel corridoio di Camera trovano posto due nuclei significativi del lavoro fotografico di Man Ray, The Fifty Faces of Juliet (1941-55) e La mode au Congo (1937), in cui è evidente il peso dell’eredità primitivista, con l’appropriazione della cultura africana da parte di quella occidentale. “Man Ray”, spiega Guadagnini, “assume e attraversa tutte le grandi tematiche dell’avanguardia del suo tempo, quindi anche quella del primitivismo, basti pensare a una fotografia come ‘Noire et Blanche’ del 1926 o un oggetto come ‘Emak Bakia’. Inoltre, una delle sue modelle preferite – e sua compagna di vita nella seconda metà degli Anni Trenta – Adrienne Fidelin, detta Ady, è una donna di colore. Con la moda Man Ray lavora per anni ed è questo uno degli ambiti che gli garantiscono fama ed entrate anche significative. Quindi ‘La mode au Congo’ è un po’ tutto questo, passione personale, ironia, elaborazione dei codici, come d’altra parte sempre accade in questa figura davvero geniale”.

Man Ray. Illustrazione © Maurizio Ceccato

Man Ray. Illustrazione © Maurizio Ceccato

MAN RAY E ANDY WARHOL

La mostra è introdotta da un noto ritratto di Andy Warhol firmato da Man Ray, un’opera pop che va a riprendere concettualmente la sua idea di multiplo e di ripetizione, in grande anticipo sui tempi. “Man Ray ha stampato e ristampato le sue foto con grande nonchalance, lo testimonia anche Lucien Treillard, suo ultimo assistente. Non era ancora tempo di mercato fotografico e del conseguente valore economico legato al vintage. Le fotografie provenienti dall’ASAC di Venezia, che componevano l’ultima mostra realizzata con il maestro ancora in vita, alla Biennale, sono tutte ristampe. Anche questo è un aspetto sul quale riflettere, nell’attuale culto, spesso fuori luogo, dell’‘originale’ fotografico”, conclude Guadagnini.

Angela Madesani

Articolo pubblicato su Grandi Mostre #19

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Angela Madesani

Angela Madesani

Storica dell’arte e curatrice indipendente, è autrice, fra le altre cose, del volume “Le icone fluttuanti. Storia del cinema d’artista e della videoarte in Italia”, di “Storia della fotografia” per i tipi di Bruno Mondadori e di “Le intelligenze dell’arte”…

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