A Palazzo Te di Mantova l’installazione filmica dell’artista Isaac Julien è monumentale
Per celebrare il Cinquecentenario di Palazzo Te, Mantova apre le porte all’artista inglese, per la prima volta in Italia con un progetto personale e site specific, che scardina le visioni dominanti per proporre un messaggio di speranza di elevatissimo tenore filosofico

“All that you touch will change and all that you change will change you” “Tutto ciò che tocchi si trasforma e tutto ciò che trasformi, trasforma te”. È un urgente messaggio di speranza, pieno di amore e rabbia, quello lanciato da Isaac Julien (East End, UK, 1960) con All that changes you. Metamorphosis, potente installazione filmica multischermo, concepita per gli incredibili spazi di Palazzo Te e presentata in anteprima mondiale, per celebrare il Cinquecentenario dello storico edificio nei rinnovati ambienti delle Fruttiere riaperti per l’occasione.
Donna Haraway e la Scuola di Santa Cruz nell’opera di Isaac Julien a Palazzo Te
Un lavoro monumentale, “ideato sulla scia dell’emotività” come rivelato da Stefano Baia Curioni, direttore di Fondazione Palazzo Te, “in dialogo con Lorenzo Giusti, curatore del progetto, che ha proposto di invitare l’importante video artista inglese, per la prima volta in Italia con una mostra personale, e di inaugurare proprio con lui, la cui estetica si adatta perfettamente al luogo, le Fruttiere del Te, pronte a riaprire dopo sette anni di chiusura”. Così è nata All that changes you. Metamorphosis, installazione a dieci schermi, realizzata da Julien in collaborazione con Mark Nash e Vladimir Seput, che condensa, in tutta la sua immediatezza e bellezza, la costellazione teorica legata alla Scuola di Santa Cruz, a partire dalla teoria di Donna Haraway; pilastro fondamentale del progetto, insieme a figure come Anna Tsing, Karen Barad e Carla Freccero.

Le protagoniste dell’opera di Isaac Julien a Palazzo Te
Le due protagoniste, Lilith e Naomi, interpretate rispettivamente da Sheila Atim e Gwendoline Christie, sono le eredi di questo pensiero: la prima attraverso l’empatia, la seconda attraverso l’ibridazione; rappresentando l’una una voce post-umana, erede della contaminazione e di una sapienza condivisa, proveniente da un futuro ibrido; l’altra una presenza più terrestre e meditativa, testimone del dolore, del disorientamento e del divenire che, ancora legata alla tensione tra passato e futuro, cerca di ricucire un’etica della metamorfosi, ovvero di spiegarsi il cambiamento. Entrambe sono consapevoli che “ogni momento porta con sé una metamorfosi”, perché, come afferma Naomi, Gwendoline Christie: “Non siamo in controllo. Nemmeno di noi stessi. Ogni cosa è nel flusso, inclusa la nostra capacità di sopravvivere”.
Forma e contenuto: il connubio perfetto del progetto di Isaac Julien a Mantova
La costruzione fisica del progetto, coinvolgendo al massimo gli spettatori, ne rispecchia a pieno il contenuto. I dialoghi tra le due misteriose protagoniste sono frammenti poetici più che drammatici; i loro scambi non seguono una logica prosaica o razionale perché sono vere soglie di trasformazione. Ogni affermazione ha un portato filosofico che, risuonando dentro, ridefinisce tanto chi lo pronuncia quanto chi lo ascolta. Il punto è l’urgenza di un cambiamento, di una metamorfosi. Perché, come mostra lo scenario a tratti apocalittico, non c’è più tempo per salvezze trascendenti o nostalgie del passato. Così, a partire dal fatidico statement di apertura, in cui Donna Haraway riflette sul termine Trouble, All that changes you. Metamorphosis mostra che la sopravvivenza si costruisce nel presente, nel rischio e nella relazione con l’alterità, attraversando lo spazio-tempo con empatia e vulnerabilità, non per dominarlo ma per comprenderlo. Perché: “l’unico modo per diventare è stare uniti”. In linea con ilpensiero della filosofa, basato sulla costruzione di sodalizi inaspettati e critico verso ogni logica di salvezza o progresso lineare, il film intreccia questi pensieri in una rete di concetti e affetti, ove la metamorfosi diviene una grammatica visivo-linguistica: un linguaggio fluido che rompe la narrazione consequenziale. L’installazione, con i suoi dieci schermi e i numerosi specchi, crea un ambiente immersivo che non impone gerarchie ma moltiplica i punti di vista, coreografando il pensiero. Le immagini scorrono come visioni oniriche – foreste, animali, forme ibride, stelle, incendi – componendo un alfabeto visivo in divenire, in cui il corpo si fa cosmo e viceversa.






Palazzo Te a Mantova nel film di Isaac Julien
In questo contesto gli spazi non sono sfondi ma co-protagonisti, agenti simbolici che possiedono una propria identità sensoriale, partecipando alla metamorfosi. A partire da Palazzo Te che, costruito da Giulio Romano tra il 1525 e il 1535, ha dato il là a tutto il progetto. “Laboratorio estetico”, per usare le parole del curatore “, le cui deformazioni prospettiche e allegorie mitologiche diventano metafora del collasso dell’umanesimo e della crisi contemporanea ma anche possibilità del rinnovamento. Dalla crisi nasce il viaggio delle protagoniste verso altri mondi”. La Sala dei Giganti, in cui Julien ritrae la distruzione come preludio alla rinascita, non a caso è il luogo in cui il visionario artista colloca, in chiusura del film, la capsula Apollo, atterrata in principio nel cuore di una foresta di sequoie in California. Clone perfetto della storica navicella spaziale, che: “incastonata in un ecosistema organico tanto monumentale quanto fragile” come osservato da Giusti “crea un cortocircuito perturbante; per cui non evoca più l’epopea della conquista spaziale, ma si trasforma in una camera interiore, un luogo esistenziale in cui la soggettività umana si confronta con la propria dissonanza ecologica”. Nelle sale di Amore e Psiche e in quella dei Cavalli, il regista sovverte l’iconografia maschile grazie alle eteree ma potenti presenze femminili che ne risemantizzano l’apparato iconografico.
Gli spazi come corpi narranti nella grammatica visiva di Julien
Il film poi spazia in altre location che ampliano il discorso. La Cosmic House di Charles Jencks introduce i temi dell’ironia e dell’ibridazione; la casa di Richard Found, trasparente e immersa nella campagna inglese, suggerisce una metamorfosi fatta di luce e sospensione; il padiglione Herzog & de Meuron per la Kramlich Collection esplora la relazione tra corpo e immagine. Spazi che partecipano a un indefinito scorrere in cui la metamorfosi non è catastrofe ma condizione esistenziale, opportunità di rigenerazione e pratica di cura. Seguendo la Haraway che ci invita a “stare nel problema” accettando di abitare il presente senza facili e vane scappatoie, l’opera non intende spiegare ma coinvolgere facendo presente che “is from differences between us, not from affinities, that love comes // è dalle differenze, non dalle affinità che sorge l’amore”.
Ludovica Palmieri
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