“Odio il decoro!”. Riflessioni attorno alla mostra di Fornasetti a Bologna
In questa intervista Davide Trabucco ci racconta tutto sulla sua nuova mostra “ODIO IL DECORO!”, che vede protagoniste le opere di Piero Fornasetti, rilette all’insegna del decoro e dell’ornamento

In occasione della mostra Odio il decoro!, allestita a Palazzo Bentivoglio, a Bologna, Davide Trabucco – project manager dell’istituzione bolognese – riflette con noi sul concetto di ornamento e sul suo riuso come pratica curatoriale. Il progetto mette in discussione il valore e il ruolo del decoro oggi, tra ironia, stratificazione e nuove possibilità di senso.
La mostra “ODIO IL DECORO!” secondo il curatore
Come nasce l’idea di “ODIO IL DECORO!” e in che modo si inserisce nel dialogo con la collezione di Palazzo Bentivoglio?
L’idea della mostra prende avvio da una fotografia che avevo scattato tempo fa per strada: una scritta su una colonna in Via Oberdan che mi aveva colpito e che desideravo riutilizzare in qualche modo. Da un paio d’anni, le mostre che realizziamo nella tarda primavera o estate si costruiscono sul riutilizzo degli allestimenti delle mostre precedenti. Se lo scorso anno la curatela era stata affidata a Franco Raggi, quest’anno si è scelto di riadattare l’allestimento progettato da Ferruccio Laviani.
Quali sono, dunque, i pezzi della Collezione protagonisti?
Il fulcro dell’esposizione è costituito dagli oggetti di Fornasetti presenti nella collezione di Palazzo Bentivoglio con l’intenzione di dare nuova vita anche all’allestimento di Laviani. Le motivazioni sono molteplici: da un lato c’è una questione economica e ambientale, dall’altro il desiderio di comprendere come ciò che già possediamo possa acquisire nuovi significati nel tempo. Il legame con la mostra precedente risiede dunque nell’allestimento, mentre quello con la collezione consiste nell’approfondimento di un nucleo già esistente. Fornasetti, ad esempio, era stato oggetto di un’indagine all’interno di un altro spazio della collezione, il garage su strada. Con questa mostra si è cercato di offrirne una nuova configurazione, esplorando come un altro ambiente possa generare un senso rinnovato per qualcosa già affrontato in passato.






L’ornamento secondo Davide Trabucco
Il titolo della mostra è provocatorio. Cosa significa per te “odiare il decoro” oggi? E in che senso questa affermazione può essere letta nel lavoro di Fornasetti?
La frase non è di Fornasetti, ma si è scelto volutamente di giocare con l’idea che potesse esserlo. Il progetto si sviluppa in due momenti: il primo presenta una serie di fotografie scattate in città, tra cui quella con la scritta in via Oberdan; le altre tre immagini documentano elementi decorativi urbani, come quelli della Basilica di San Petronio e di Palazzo Albergati. Sono edifici non completamente terminati, ma le parti concluse mostrano apparati decorativi di altissima qualità. Oggi, invece, si tende a concludere un edificio prima di considerare il decoro, relegandolo a un ruolo secondario.
Quale riflessione ne emerge?
Con il titolo volevamo provocare, insinuare il dubbio che fosse una citazione fornasettiana, pur non essendolo affatto. Ci interessa interrogare cosa significhi oggi “decoro“: ha ancora senso? È ancora importante? È possibile immaginare nuove forme di decoro? Fornasetti, in questo senso, resta attuale proprio perché capace di attraversare questi interrogativi.Personalmente, considero il decoro qualcosa di futile, accessorio, che arriva solo dopo che tutto il resto è stato definito. Ma proprio per questo è essenziale: è ciò che non serve a nulla, ma a cui non si può rinunciare.
Tornando alla scritta vista in Via Oberdan, che cosa ti ha colpito in particolare?
La scritta fotografata – “odio il decoro” – mi ha colpito perché, nel momento in cui viene tracciata su un muro, genera essa stessa una forma decorativa. È una contraddizione interessante, soprattutto in una città come Bologna, dove le scritte sono pervasive e possono essere lette, in fondo, come una forma di decoro urbano.
Michel Foucault ha mostrato come il significato delle cose non sia mai intrinseco, ma venga prodotto dai contesti e dai dispositivi in cui esse sono immerse. In mostra, un piatto cambia radicalmente senso a seconda che si trovi in una cucina, in una vetrina o in un allestimento museale. Come hai lavorato curatorialmente su questi “slittamenti di senso”? Ti interessa questa dimensione foucaultiana del contesto come generatore di significato?
Assolutamente. Ho cercato di utilizzare gli oggetti nel modo più decorativo possibile. Due fregi, ad esempio, sono stati trasformati in elementi architettonici, un’operazione che mi interessa anche per la mia formazione: dare una nuova vita architettonica a un oggetto di arti applicate è un modo per metterne in crisi la funzione originale e aprirlo a nuovi significati, attraverso il display.
Fornasetti sembra non riconoscere gerarchie tra gli oggetti, decorando con la stessa attenzione superfici “alte” e “basse”. È un approccio che mette in discussione anche le convenzioni espositive? Come è stato tradotto questa visione nel display della mostra?
Fornasetti ha lavorato sul gusto borghese, ed era inevitabile che nascesse in una città come Milano. Paradossalmente, il suo lavoro ha attraversato un’epoca che lo aveva dimenticato: negli stessi anni in cui lui produceva, l’Europa conosceva già il Bauhaus. Eppure, ha saputo reimmaginare le modalità espressive della borghesia ottocentesca in chiave moderna, sviluppando un universo visivo coerente e totalizzante, estendibile a ogni superficie e oggetto.

Come è stata tradotta questa visione nel display della mostra?
Dal punto di vista espositivo, ho lavorato su questo concetto di universo infinito: le pareti della mostra si interrompono, ma i fregi che vi si incontrano suggeriscono un’estensione potenzialmente illimitata. L’intento era quello di raccontare una parzialità, non il tutto di Fornasetti, ma una possibile configurazione del suo mondo.Nella mostra precedente, allestita nel garage, avevamo lavorato invece sulla forma, mettendo in secondo piano la decorazione. Qui, al contrario, è la decorazione a dominare: gli oggetti sono disposti verticalmente e dialogano fra loro proprio attraverso le superfici decorative, quasi come se si alternassero metope e triglifi. L’idea era quella di dare ritmo a questi elementi e vederli trasformarsi, nel loro insieme, in un fregio.
Che tipo di esperienza speri vivano i visitatori della mostra? C’è un messaggio, magari non esplicito, che desideri trasmettere attraverso l’allestimento?
La cosa che più mi interessa trasmettere è che Fornasetti, in realtà, non appartiene al mio codice visivo. Eppure, lavorare con una collezione significa proprio confrontarsi con ciò che non ci è affine. Spesso pensiamo che ciò che non ci interessa non abbia valore, ma non è così: anzi, proprio il confronto con qualcosa di distante – per linguaggio, per ambiente culturale, per classe sociale – può arricchire enormemente il nostro sguardo. Spero che chi visita la mostra colga l’invito a costruire il proprio universo di riferimento. Fornasetti lo ha fatto: ha creato un mondo tutto suo in cui si sentiva a suo agio. Ognuno può farlo, accogliendo ciò che ama, mettendo insieme frammenti e facendoli dialogare tra loro. L’importante è iniziare a costruirlo.
Diana Cava
Libri consigliati:
(Grazie all’affiliazione Amazon riconosce una piccola percentuale ad Artribune sui vostri acquisti)
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati