Flettere la realtà. La mostra di Anish Kapoor a Firenze 

Tra gli artisti più celebri del nostro tempo, Anish Kapoor invade gli ambienti di Palazzo Strozzi con la sua materia, le sue illusioni e la sua alchimia

Scrivere di Anish Kapoor (Mumbai, 1954) è introspettivo, corposo e complesso quanto osservare le sue opere. Di origine indiana, ma trasferitosi a Londra nei primi anni Settanta, la ricchezza delle tematiche proprie della sua arte impone certamente una buona dose di attenzione per attraversare le soglie della seduzione cui le sculture di fama mondiale sono riuscite a maturare. L’alternativa è arrendersi a un voyeurismo macrofilo. 

La mostra di Anish Kapoor a Firenze 

Già nel titolo della mostra ideata per Palazzo Strozzi di Firenze, Untrue Unreal, a cura di Arturo Galansino, si svela una direzione extra-sensoriale per invitare il pubblico a godere in profondità dell’esperienza fruibile, mettendo in discussione non le opere in sé, palesi ed eloquenti, bensì le individuali capacità percettive. Grazie a espedienti tecnici innovativi, come in Non-Object Black (2015) – caratterizzato dal Vantablack, materiale capace di assorbire più del 99,9% della luce visibile – si genera una “sovrapposizione di stati” cui la simultaneità è quantificabile in un tempo indeterminato, sfasato dalla fruizione, e la spazialità aggiunge una “quarta dimensione”, filo-suprematista. Entrare nell’opera site specific del cortile palatino, Void Pavilion VII (2023), significa compiere un’esperienza quantistica, vicina al paradosso di Schrödinger. 
Le opere pullulano di contrappunti semantici, potendolo definire, anche per i colti e continui riferimenti storico-artistici (oltre al Quadrato nero di Kazimir Malevič, 1915, per la vicinanza tra la kapooriana Endless Column, 1992, e l’omonima scultura di Constantin Brâncuși, 1918) sia come un’azione iperomantica sia come un qualcosa di “muscolare”, che esprime forza e una forma di Resistenza, di disobbedienza vitale, per la sua indiscutibile qualità di sovvertire l’ordine delle cose e delle idee. 

Arte e alchimia nelle opere di Anish Kapoor 

Nella monumentale opera Svayambhu (2007), la massa cerosa penetra l’architrave tardo quattrocentesco con spinta equivoca e di forte impatto scenico, senza offrire un tempismo unitario, come succitato, e una versione netta e stabile della macchina artistica, così da rovesciare continuamente stimoli e significati. Emerge la considerazione dell’artista verso il limen ermeneutico del fenomeno artistico, in particolare nei riguardi della materia e del colore rosso, pigmento che offre un campo d’indagine verso l’interiorità del colore, che presta un richiamo alla carne e alla sessualità; la soglia in questo frangente può essere intesa anche come “nascita” o “ambiguità”, ritrovando in un lavoro come A Blackish Fluid Excavation (2018), un corpo cavernoso ravvisabile da un lato come una vulva, dall’altro come un pene, quella paradossale “sovrapposizione di stati” tipica del maestro britannico. Pertanto, cosa può legare dialetticamente, o “quantisticamente”, Untrue Unreal con un contesto Rinascimentale? La risposta è l’Alchimia. Le scienze esoteriche pongono come principio basilare la trasmutazione della materia attraverso uno “scambio equivalente” per preservare l’equilibrio naturale. Le ultime due sale, con i pezzi specchianti di Vertigo (2006), Mirror (2018) e Newborn (2019), e le pietre di ardesia tinte di blu di Angel (1990), sono le proposte encomiastiche di una surrealtà perennemente ricercata. Il faccia a faccia con una dimensione talmente palpabile ed ermetica obbliga un confronto con il proprio ego, espletato nel riflesso deformato delle grandi sculture levigate, rimarcato nello stordimento sublime di trovarsi di fronte ad un Abisso linguistico, incarnazione di un blocco ontologico di un personale godimento estetico. L’abisso è mobile, vive dentro e fuori del nostro essere, nella durata dell’osservazione dell’opera d’arte. E se si scruta a lungo nell’arte di Kapoor, anche l’arte scruterà dentro ciascuno. 

Luca Sposato 

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