L’edizione numero 15 del Premio Nazionale delle Arti per le AFAM è sul tema del viaggio

Per ritornare a riflettere e rigenerare l’arte del presente dopo l’emergenza Covid. La sezione arti figurative si terrà a Sassari a dicembre. Antonio Bisaccia, direttore dell’Accademia M. Sironi, spiega il tema filo conduttore della competizione

Tempo di Viaggio (habitat contemporanei per il nessun dove):questo è il titolo che dà il tema al Premio Nazionale delle Arti XV per le AFAM, sezione arti figurative, digitali e scenografiche. Come contraltare al lockdown, l’auspicio, o forse il monito, è che sia davvero tempo di viaggio. Nuovamente. Giunto alla quindicesima edizione, il PNA AFAM, che oltre alla sezione oggetto del tema appena citato ha anche altre sezioni (Arti dello Spettacolo – Danza e Arte Drammatica, Design e Interpretazione Musicale con le sue numerose sezioni), punta a rigenerare le espressioni del talento nei vari linguaggi artistici. Dopo la stasi forzata provocata del Covid-19 riemerge dunque la necessità del viaggio come modo insostituibile per esperire l’altro da sé, nell’idea che esso sia la piattaforma da cui diramare la conoscenza e i suoi frutti: nel caso di specie, quei particolari costrutti visivi che chiamiamo opere d’arte. La sezione arti figurative, digitali e scenografiche, affidata dal Ministero dell’Università e della ricerca all’Accademia di Belle Arti “Mario Sironi” di Sassari, si terrà – dal 3 dicembre 2021 al 15 gennaio 2022 – al Mas.Edu, che da opificio industriale è diventato opificio delle Arti e laboratorio di ricerca artistica.

VIAGGIO COME CORPO FRAGILE: IL TEMA DEL PREMIO

La suggestione del titolo del PNA XV è tratta dall’omonimo documentario – girato nel 1982 insieme a Tonino Guerra – del grande regista russo Tarkovskij. Il tema del viaggio ha da sempre dato spunto a molteplici opere della storia delle arti (dalla letteratura, al cinema, alla pittura, alla scultura, alla musica, etc.) e – superata la boa del 2020 – appare necessario riconfigurare questo tema nella contemporaneità. Il viaggio, nella direzione dell’esergo di Huysmans, non è solo spostarsi da un dove a un altro dove o verso un nessun-dove, con tutta la mutevolezza del quotidiano etico che si tramuta di paesaggio in paesaggio, ma è la trasfigurazione intensa che la memoria incide sul suo corpo fragile. Si, perché il viaggio è un corpo fragile. Anzi, potremmo aggiungere che il viaggio diviene, durante il suo svolgersi nel non-corpo-reale di un’idea che cresce. Il problema invece è il tentativo di divenire “viaggio”, di essere intessuti dello stesso DNA del viaggio, a noi sconosciuto. Solo allora possiamo far parte delle tessere che costituiscono la pelle del viaggio. Ovvero per poterne avere contezza dobbiamo –momentaneamente – sparire e abbandonare tutti i motivi o desideri che ci hanno fatto intraprendere il viaggio stesso. Bisogna dimenticare di viaggiare: lasciarsi stare, dislocando il pensiero oltre ogni sindrome o delirio di conoscenza. E questa lucida dimenticanza costituisce la vera essenza del viaggio, il suo essere un grande puzzle cui attingere e da cui farsi sedurre poiché, come dice Saramago “…il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono”. E il viaggio si nutre dei viaggiatori, li divora e li incanta con le note intense del piacere dell’ignoto, anche se, spesso, in realtà si viaggia su linee di demarcazione già segnate, già frantumate, già consumate. Seguendo questa pista, il viaggio come ritorno, come Nostos di Ulisse, non è che una pura velleità, un habitat impossibile. “(…) Non credo che si viaggi per tornare. L’uomo non può tornare mai allo stesso punto da cui è partito, perché, nel frattempo, lui stesso è cambiato. Da sé stessi non si può fuggire”, scriveva Tarkovskij in Tempo di viaggio nel 1983.Il senso più intimo della poetica di Tarkovskij sul viaggio è tutto rivolto a questa impossibilità logica, a questo paradosso della cognizione umana del viaggio.

PREMIO AFAM: NOSTALGIA E IL VIAGGIO NELLA TESTA

“Il viaggio è nella testa”, scriveva Baudrillard. E fuori dalla testa tutto è estero, tutto è straniero, tutto è altro. Ogni io altro da me vive all’estero della mia coscienza. In questa direzione il viaggio non è che il correlativo oggettivo di questa distanza. Viaggio allora è andare “verso”, cioè contro. Contro le proprie credenze, le proprie costruzioni, i propri idoli. L’ unica forma possibile di conquista dell’ignoto è la navigazione in questa regione priva di a-priori, ovvero priva di ciò che è prima. L’idea di Chatwin secondo cui il viaggio dà forma alla mente, oltre che allargarla, risiede in questa sua capacità di espansione dinamica, di inglobare le cose lasciando che queste rigenerino una nuova idea di mondo, una nuova irrequietezza, un nuovo disincanto. E si può conquistare l’ignoto solo con l’attivazione di un occhio innocente, ovvero all’etimo l’occhio che non nuoce. Lo indicava molto bene Marcel Proust: “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”. Senza questi nuovi occhi il viaggio, questa gracile creatura impossibile da abitare, non è che l’esternazione di un tragitto, di un trasporto, di una manciata di tempo che si riduce a un’andata con ritorno. Ecco perché nasce la nostalgia, ovvero il dolore del ritorno. Ciò che si guarda al ritorno è allora il vero nuovo, l’ignoto che credevamo di conoscere.

IL VIAGGIO COME ESPERIMENTO MENTALE GALILEIANO

In altro senso, il viaggio, imprendibile senso del già noto, nel momento in cui lo comprendo, ovvero nell’attimo in cui lo prendo con me, lo annullo. Azzerando, così, anche me stesso. Il viaggio, insomma, è la forma più complessa di seduzione: è cercare di farsi sedurre e, ad un tempo, è il tentativo di sedurre. Farsi conquistare e conquistare. Accedere al mondo, o a un qualche suo livello, portandolo a sé, forse per un istante, forse per sempre: foss’anche nell’assoggettamento dell’illusione. Il viaggio è allora un atto di seduzione permeabile che porta con sé le stigmate dell’invasione corporea, dell’osmosi provocata dalla passione, dell’inglobazione acritica di ogni sensazione. In realtà il viaggio è portatore sano dell’assenza di saggezza, ma il viaggiatore, dimentico di sé, allude solo alla sua dimensione conoscitiva, considerando esclusivamente la condizione dimessa delle (irrinunciabili) certezze come vertice del suo cammino apocrifo. Ha forse il viaggio le caratteristiche per essere solo l’immagine di un esperimento mentale galileiano? Senza partenze, senza arrivi, senza ritorni.

– Antonio Bisaccia

Per informazioni

http://pna15.accademiasironi.it

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Antonio Bisaccia

Antonio Bisaccia

Antonio Bisaccia è Presidente del Consiglio Nazionale per l’Alta Formazione Artistica e Musicale e titolare della cattedra di prima fascia di “Teorie e metodo dei Mass-Media” presso l’Accademia Albertina di Torino. Collaboratore di riviste e quotidiani, tra i suoi libri…

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